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POEMI CONVIVIALI
[1904]
NON OMNES ARBUSTA IUVANT
ALL'AMICO ADOLFO DE BOSIS
ADOLFOil tuo CONVITO non è terminato. Nelgennaio del 1895 cominciavae doveva continuare per ogni mese di quell'annoinRoma. Come fui chiamato anch'io a far parte di quel «vivo fascio di energiemilitanti le quali valessero a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbidaonda di volgarità che ricopriva omai tutta la terra privilegiata dove Leonardocreò le sue donne imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili»?
In quel gennaio cominciavo e in quel decembre avrei compitoil mio quarantesimo anno. Tutte le giornatedal gennaio al decembremi siconsumavano nell'esercizio del magistero. Avevo veduta una sola voltae disfuggitae distratto da altre debite cureRoma. Sottili facevo le spesecomepar giusto alla nostra madre Italia che povera e trita passi la vita di coloroche le educano e istruiscono gli altri figlinostri minori fratelli. Ero diquelli che s'erano ritratti «a coltivare» (secondo altre parole del Proemiodel CONVITO) «a coltivare la loro tristezza come un giardinosolitario». Eppureno: non ero di quelli; chéin veritànon avrei cercatod'avereper un mio proprio gustodi quella tristezza e il fiore e il frutto! Oinameni fiori! O frutti amarissimi! Chi vorrebbe essere l'ortolano e ilgiardiniere della morte? I frutti degli alberi nei cimiteri non si mangianomasi lasciano cadere. Non si dà alle bestie l'erba che nascecosì rigogliosacosì fioritanei camposanti; ma si brucia. Ora io coltivavo e coltivo quellatristezza per un qualche utile dei miei simili; per dire ad essi la parola cheforse importa più di tutte le altre: che oltre i mali necessari della vita eche noiquali possiamo appena attenuarequali nemmeno attenuarevi sono altrimali che sono i soli veri malie questi sì possiamo abolire con somma e prontafacilità. Come? Col contentarci. Ciò che piaceè sì il molto; ma il poco èciò che appaga. Chi ha setecrede che un'anfora non lo disseterebbe; e unacoppa lo disseta. Ora ecco la sventura aggiunta del genere umano:l'assetatoperché erede che un'anfora non basti alla sua setesottrae aglialtri assetati tutta l'anforaa cui berrà una coppa sola. Peggio ancora:spezza l'anforaperchéaltri non bevase egli non può bere. Peggio che mai:dopo aver bevuto essosperde per terra il liquore perché agli altri cresca lasete e l'odio. E infinitamente peggio: si uccidono tra loroi sitibondiperché non beva nessuno. Oh! bevete un po' per unostolidie poi fate diriempire la buona anfora per quelli che verranno!
Per questoche io dico che la poca gioia che può averl'uomo è nel pocoio sonocaro Adolfosincero. Mi fu dato di provare ilpregio del pocosì per essermi stato da altri rubato tuttosì per avere ioricuperatodi quel pocoun pocolino. «Il pregio del poco» ho detto... Ma inverità che cosa si può pretender di più pocoche d'essere lasciatofin chepiaccia alla naturacon chi vi ha messo al mondo? Basta: parliamo d'altro.Dunque del poco che mi fu sottrattoho poi ricuperato un pochino. E ne mostrocome è giustoun pochino di gioia. Sono dunque sinceroquando parlo delladelizia che c'èa vivere in una casa pulitasebben poveraad assidersiavanti una tovaglia di bucatosebben grossaa coltivare qualche fioreasentir cantare gli uccelli... Ma questa sincerità si chiamadai malati distoria letterariaArcadia. Io sono (. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . .) un arcade. La miaoltre che finzione sarebbeanche sdolcinatura e mascolinaturadestinata a produrrese non si castiga atempogli efftti più deleteri nell'organismo nazionale. Consimilichiedo ioa quelli che ha prodotti nel Giappone la contemplazione ingenua degli uccelli edei fiori? la predilezione per la piccola casa e il piccolo orto e il semplice epuro tatami? Sciocchi! Io non credo troppo nell'efficacia della poesiaepoco spero in quella della mia; ma se un'efficacia ha da esseresarà diconforto e di esaltazione e di perseveranza e di serenità. Sarà di forza;perché forza ci ho messonon avendo nel mio esseresemplificato dallasventurase non forzada metterci; forza di poca vistabensìe di pocosuonoperchésenza gale e senza fanfareè non altro che forza.
Dunquenemmeno allora io era chiuso in un «giardinosolitario»sebbene fossi molto segregato e lontano e oscuro. Quando michiamaste tra quelle «energie militanti» tu e Gabriele d'Annunzio.
O mio fratellominore e maggioreGabriele!
Già sette anni prima Gabriele aveva scrittointorno adalcuni miei sonettiparole di gran lode. Già entrando nella mia Romagnaacavallocol suo reggimentocantava (e lo diceva al pubblico italiano) certimiei versi:
Romagna solatìadolce paese!
Il giovinettopieno di grazia e di gloriasi rivolgeva ognimomento dalla sua via fiorita e luminosaper trarre dall'ombra e dal deserto edal silenzio esìdalla sua tristezzail fratello maggiore e minore. Ionella irrequietezza della vitaho potuto talvolta dimenticare quel gestogentile del fanciullo prodigioso; ma ci sono tornato susempreammirando eamando. Ci torno suorapiù che mai gratoora che raccolgo e a teo Adolfore del CONVITOconsacro questi poemidei quali i primi comparvero nel CONVITOe piacquero a lui. Piaceranno agli altri? Giova sperare. O asvranno la sorted'un altro mio scritto convivialedella Minerva Oscurache poi generòaltri due volumiSotto il Velame e La Mirabile Visionee ancorauna Prolusione al Paradisoe altri ancora ne creerà? Non mi dorrebbetroppo se questi Poemi avessero la sorte di quei volumi. Essi furono derisi edepressioltraggiati e calunniatima vivranno. Io morrò; quelli no. Cosìcredocosì so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra genteDantela additerà ai suoi figli.
Prima di quel giornoche verrà tanto prima per meche pertee per Gabrielenon vorremo fruire il CONVITOfacendo l'ultimo dedodici libri? Narreremo in esso ciò che sperammo e ciò che sognammoe ciòche seminammo e ciò che mietemmoe ciò che lasciamo e ciò che abbandoniamo.O Adolfotu sarai (non parlo di Gabrieleché egli s'è beato) più lieto omen triste di me! Sai perché? Il perché è in questo tuo libro. Leggi «IVECCHI DI CEO». Tutti e due lasciano la vita assai sereni: ma uno piùl'altro meno. Questi non ha in casacome messe della sua vitase non qualchecorona istmia o nemead'appio secco e d'appio verde (oh! secco ormai anchequesto!). L'altroe ha di codeste ghirlandee ha figli dei figli. Tu seiquest'ultimoo Adolfo; tu sei Panthide che ebbe il dono dalle Chariti!
Pisa3O giugno del 19O4.
GIOVANNI PASCOLI
SOLON
Triste il convito senza cantocome
tempio senza votivo oro di doni;
ché questo è bello: attendere al cantore
che nella voce ha l'eco dell'Ignoto.
Oh! nullaio dicoè bello piùche udire
un buon cantoreplacidiseduti
l'un presso l'altroavanti mense piene
di pani biondi e di fumanti carni
mentre il fanciullo dal cratere attinge
vinoe lo porta e versa nelle coppe;
e dire in tanto grazïosi detti
mentre la cetra inalza il suo sacro inno;
o dell'auleta queruloche piange
goderepoi che ti si muta in cuore
il suo dolore in tua felicità.
- Solondicesti un giorno tu: Beato
chi amachi cavalli ha solidunghi
cani da predaun ospite lontano.
Ora te né lontano ospite giova
négià vecchioi bei cani né cavalli
di solid'unghiané l'amoreo savio.
Te la coppa ora giova: ora tu lodi
più vecchio il vino e più novello il canto.
E novelle al Pireocon la bonaccia
prima e co' primi stormidue canzoni
oltremarine giunsero. Le reca
una donna d'Eresso - Apri: rispose;
alla rondineo Phocoapri la porta. -
Erano le Anthesterïe: s'apriva
il fumeo doglio e si saggiava il vino.
Entròcol lume della primavera
e con l'alito salso dell'Egeo
la cantatrice. Ella sapea due canti:
l'unod'amorel'altro era di morte.
Entrò pensosa; e Phoco le porgeva
uno sgabello d'auree borchie ornato
ed una coppa. Ella sedéreggendo
la risonante pèctide; ne strinse
tacita intorno ai còllabi le corde;
tentò le corde fremebondee disse:
Splende al plenilunïo l'orto; il melo
trema appena d'un tremolio d'argento...
Nei lontani monti color di cielo
sibila il vento.
Mugghia il ventostrepita tra le forre
su le quercie gettati... Il mio non sembra
che un tremorema è l'amoree corre
spossa le membra!
M'è lontano dalle ricciute chiome
quanto il sole; sìma mi giunge al cuore
come il sole: belloma bello come
sole che muore.
Dileguare! e altro non voglio: voglio
farmi chiarità che da lui si effonda.
Scoglio estremo della gran lucescoglio
su la grande onda
dolce è da te scendere dove è pace:
scende il sole nell'infinito mare;
trema e scende la chiarità seguace
crepuscolare.
La Morte è questa! il vecchio esclamò. Questo
ella risposeèospitel'Amore.
Tentò le corde fremebondee disse:
Togli il pianto. È colpa! Sei del poeta
nella casatu. Chi dirà che fui?
Piangi il morto atleta: beltà d'atleta
muore con lui.
Muore la virtù dell'eroe che il cocchio
spinge urlando tra le nemiche schiere;
muore il senosìdi Rhodòpil'occhio
del timoniere;
ma non muore il canto che tra il tintinno
della pèctide apre il candor dell'ale.
E il poeta fin che non muoia l'inno
viveimmortale
poi che l'inno (diano le rosee dita
pace al peploa noi non s'addice il lutto)
è la nostra forza e beltàla vita
l'animatutto!
E chi voglia me rivederetocchi
queste cordecanti un mio canto: in quella
tutta rose rimireranno gli occhi
Saffo la bella.
Questo era il canto della Morte; e il vecchio
Solon qui disse: Ch'io l'imparie muoia.
IL CIECO DI CHIO
O Deliàso gracile rampollo
di palmaai piedi sorto su del Cyntho
alla corrente del canoro Inopo;
figlia di Palma; di qual dono io mai
posso bearti il giovanetto cuore?
Ché all'invito de' giovani scotendo
gl'indifferenti riccioli del capo
gioia t'hai fatto del vegliardo grigio
cui poter falla e desiderio avanza.
E lui su le me lievi orme adducevi
all'opaca radura ed al giaciglio
delle stridule fogliein mezzo ai pini
sonanti un fresco brulichìo di pioggia
presso la salsa musica del mare.
Né già la bianca tua beltà celasti
a gli occhi della sua memore mano:
non vista ad altriche a lui cieco eforse
al solitario tacito alcïone.
O Deliàse già finì la gara
de' tunicati Iàoni: già tace
il vostro corogrande meraviglia
in cui nessuna di te meglio scosse
i procellosi crotali d'argento.
Ed il nocchiero su la nave nera
l'albero drizzaed in su trae le pietre
le gravi pietre su cui dondolando
dorme la nave nel loquace porto.
Ora un nocchiero addimandai: Nocchiero
vago per l'onde come smergo ombroso
dài ch'alla nave il pio cantore ascenda?
cieco uomoe vive nella scabra Chio.
Così te veda un ospite all'approdo.
Tanto io gli dissi. Egli assentì; ché grande
è del cantoreben che nudo e cieco
la grazia in uno ardor di ventiin una
ai cuori alati ritrosia di calma.
E di qual donoo Deliàspartendo
né so per dovesu la nave nera
posso bearti il giovanetto cuore?
Ché non possiedofuor della bisaccia
laceranullae dell'eburnea cetra.
E il cantoindustre che pur sianon m'offre
se non un colmo calice ed un tocco
di pingue verro eterminato il canto
una lunga nel cuore eco di gioia.
Io cieco vo lungo l'alterna voce
del grigio mare; sotto un pino io dormo
dai pomi avari: se non se talora
m'annunzïòper luoghi solistalle
di mandrïani un subito latrato;
omentre erravo tra la neve e il vento
la vampa da un aperto uscio improvvisa
nella sua casa mi svelò la donna
che fila nel chiaror del focolare.
Pur non già nulla dar non puòsì molto
il cieco aedo; e quale a me tu dono
negato a tuttidella tua bellezza
offristidonna; né maggior potevi;
tale a te l'offroné potrei maggiore.
Cieco non eroe ciò pascea con gli occhi
che rumino ora bove pazïente;
e il fior coglievo delle cosech'ora
nella silenzïosa ombra mi odora.
Era per aspri gioghi il mio cammino
degli uomini vetustiantelunari.
Nacquero sopra le montagne nere
che ancor la luna non correa su quelle:
nacque dopo essie palpitò per loro
gemiti strani. Era un meriggio estivo:
io sentiva negli occhi arsi il barbaglio
della via biancae nell'orecchio un vasto
tintinnìo di cicale ebbre di sole.
Ed ecco io vidi alla mia destra un folto
bosco d'antiche roveriche al giogo
parea del monte salir sucantando
a quando a quando con un improvviso
lancio discorde delle mille braccia.
Entrai nel bosco abbrividendoe molto
con muto labbro venerai le ninfe
non forse audace violassi il musco
mollelambito da' lor molli piedi.
E giunsi a un fonte che gemea solingo
sotto un gran lecciodentro una sonora
conca di scabra pomiceche il pianto
già pianto urgea con grappoli di stille
nuovecaduchie ne traeva un canto
dolceinfinito. Io là m'assisial rezzo.
Poinon so comeun dio mi vinse: presi
l'eburnea cetra e lungamentea prova
col sacro fontepizzicai le corde.
Così scoppiò nel tremulo meriggio
il vario squillo d'un'aerea rissa:
e grande lo stupore era de' lecci
ché grande e chiaro tra la cetra arguta
era l'agonee la vocal fontana.
Ogni voce del fonteogni tintinno
la cava cetra ripetea com'eco;
e due diceva in cuore suo le polle
forse il pastore che pascea non lungi.
Ma tardoal finem'incantai sul giogo
d'orocon gli occhie su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetreche piovea nell'ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie
simili a bianche e lunghe viefuggenti
all'ombra d'olmi e di tremuli pioppi:
Allora io vidio Deliàscon gli occhi
l'ultima volta. O Delìàsla dea
vidie la cetra della dea: con fila
sottili e lunghe come strie di pioggia
tessuta in cielo; iridescenti al sole.
E mi parlògravee mi disse: Infante!
qual dio nemico a gareggiar ti spinse
uomo con dea? Chi con gli dei contese
non s'ode ai piedi il balbettìo dei bimbi
reduce. Or vaperò che mite ho il cuore:
voglio che il male ti germogli un bene.
Sarai felice di sentir tu solo
tremando in cuorenella sacra notte
parole degne de' silenzi opachi.
Sarai felice di veder tu solo
non ciò che il volgo vìola con gli occhi
ma delle cose l'ombra lungaimmensa
nel tuo segreto pallido tramonto.
Dissee disparve; eper tentar che feci
le irrequïete palpebrepiù nulla
io vidi delle cose altro che l'ombra
pagofinché non m'apparisti al raggio
della tua voce limpidao fanciulla
di Deloo palma del canoro Inopo
sola tu del mio sogno anche più bella
maggior dell'ombra che di te serpeggia
nel mio segreto pallido tramonto.
Ora a te sola ridirò le storie
meraviglioseche sentii quel giorno
come vie bianche lontanar tra i pioppi.
E quale il tuoche non maggior potevi
tale il mio dononé potrei maggiore;
ché il bene in te qui lasceròcome ape
che pungee il male resterà più grave
grave sol oraal tuo cantorcui diede
la Musa un bene eDeliàsun male!
LA CETRA D'ACHILLE
I
I rele genti degli Achei vestiti
di bronzotuttisìdormian domati
dal molle sonnoe i lor cavalli sciolti
dai giogoavvinti con le briglie ai carri
pasceansoffiandoil bianco orzo e la spelta.
Dormivano i custodi anche de' fuochi
abbandonato il capo sugli scudi
lustrirotondipresso i fuochi accesi
al cui guizzare balenava il rame
dell'armicome nuvolaglia a notte
prima d'un nembo: Domator di tutto
teneva il sonno i Panachei chiomanti
mirabilmentenella notte ch'era
l'ultima notte del Pelide Achille;
e in cuore ognuno lo sapeanel cielo
e nella terrae tutti ora sbuffando:
dalle narici il rauco sonnoin sogno
lo vedean fare un grande arco cadendo
e sollevare un vortice di fumo;
ma in sogno senza altro fragor cadeva
simile ad ombra; e senza suonoa un tratto
i cavalli e gli eroi misero un ringhio
acutoi carri scosser via gli aurighi
mentre laggiùsotto Ilioalta e feroce
la bronzea voce si frangead'Achille.
II
Dormiansìtutti; e tra il lor muto sonno
giungeva un vasto singhiozzar dal mare.
Piangean le figlie del verace Mare
nel nero Pontol'ancor vivo Achille
lontanech'egli non ne udisse il pianto.
Ed altresìcon improvviso scroscio
ululando montavano alla spiaggia
per dirgli il fato o trarlo a sé; ma in vano:
fuggian con grida e gemiti e singhiozzi
lasciando le lor bianche orme di schiuma.
Ma non le udivabenché destoAchille
desto sol esso; ch'egli empiva intanto
a sé l'orecchio con la cetra arguta
dedalea cetrascelta dalle prede
di Thebe sacra ch'egli avea distrutta.
Orpieno il cuore di quei chiari squilli
non udiva su lui piangere il mare
e non udiva il suo vocale Xantho
parlar com'uomo all'inclito fratello
Folgoreche gli rispondea nitrendo.
L'eroe cantava i morti eroicantava
sésu la cetra già da lui predata.
Avea la spogliasu le membra ignude
d'un lion rosso già da lui raggiunto
irsutalunga sino ai pie' veloci.
III
Così le glorie degli eroi consunti
dal rogoe sé con lor cantava Achille
desto sol esso degli Achei chiomanti:
eccoavanti gli stette unocanuto
simile in vista a vecchio dio ramingo.
E gli fu presso e gli baciò le mani
terribili. Sbalzò attonito Achille
sudal suo seggioe il morto lion rosso
gli raspò con le curve unghie i garretti.
E gli volgeva le parole alate:
Vecchiochi sei? donde venuto? Sembri
sìnell'aspetto Primo rema regio
non è il mantello che ti para il vento.
Chi ti fu guida nella notte oscura?
Parlae per filo il tutto narrao vecchio.
E gli parlava rispondendo il vecchio:
Nonon ti sono io resplendido Achille;
un dio felice non mi fu l'auriga:
io da me venni. Tuttianche i custodi
dormono presso il crepitar dei fuochi.
Tu solo vegli; e non udiivenendo
ch'esili stridi dagli eroi sopiti
e che un sommesso brulichio dai morti.
E nella sacra notte a me fu guida
un suonoil suono d'una cetraAchille.
IV
Lo guardò scuro e gli rispose Achille:
Tu non m'hai detto il caro nomee donde
vieni e perché. Non forse tu notturno
vienialle navi degli Achei ricurve
per dono grandead esplorareo vecchio?
E gli parlava rispondendo il vecchio:
Io sono aedoo pieveloce Achille
caro ai guerrierinon guerriero io stesso.
Io nacqui sotto la selvosa Placo
in Thebe sacragià da te distrutta.
Da te non vengo a librerarmi un figlio
cui lecchi il sangue un vigile tuo cane;
il figliono; recando qui sul forte
plaustro mulare tripodi e lebeti
e pepli e manti e molto oro nell'arca.
Non a me copianon a te n'è d'uopo;
ché tu sei già del tuo destinoe tutti
lo sannoil cielol'infinito mare
la nera terrae lo sai tu ch'hai dato
ai cari amici le tue prede e i doni
splendidi; ansati tripodicavalli
mulilustranti buoidonne ben cinte
e grigio ferroe reso Ettore al padre
e la tua vita al suo dovere... Oh! rendi
dunque all'aedo la sua cetraAchille!
V
Dissee sporgea la mano alla sua cetra
belladedaleama l'argenteo giogo
era dai peli del lion coperto.
E il cuor d'Achillemareggiavacome
il mare in dubbio di spezzar la nave
piccolacurva. E poi parlavae disse:
TE'; riporgendo al pio cantor 'la cetra;
non sì cheurtando nel pulito seggio
non mettessetremandoella uno squillo.
Poi tacquein mano dell'aedoanch'ella.
Allorastandoil pari a un dio Pelide
udì ringhiare i suoi grandi cavalli
intese Xantho favellar com'uomo
e parlar della sua morte al fratello
Folgorche gli rispondea nitrendo.
Allora udì su lui piangere il mare
piangere le figlie del verace Mare
luicosì bellolui così nel fiore;
e molte con un improvviso scroscio
venir per trarlo via con sé; ma in vano.
E vide nella sacra notte il fato
suoche aspettava alle Sinistre Porte
come l'auriga asceso già sul carro
la sferza in pugnoche all'eroe si volge
sopragiungente nel fulgor dell'armi.
VI
E il vecchio disse le parole alate:
Lascia ch'io vada senz'indugioe porti
- meco la cetrache non forse il cuore
nero t'inviti a piangeresu questa
cetra di gloriel'ancor vivo Achille.
Lascia che pianga e mare e terra e cielo;
tu no. Non devi inebbriar di canto
tudivo Achillel'animo sereno
che sanon devi a te celare il fato
non che ti volle ma che tu volesti.
Restaci grandeo Peleiade Achille!
Noicanteremo. Noi di te diremo
chesìpiangevima lontano e solo
e che dicevi il tuo dolore all'onde
del mare ed alle nuvole del cielo.
E noi diremo che una dea non vista
a frenar la tua fosca ira veniva
e ti prendea per la criniera rossa
rossa criniera che così sconvolta
poi ti lisciava un'altra dea non vista
nel tuo dolore; e che obbedivi a voci
dell'infinito o cielo o mare: avanti
spingendo con un grande urlo d'auriga
verso la morte l'immortal tuo Xantho.
Disse e disparve nell'ambrosia notte.
VII
E stette Achille ad ascoltare i ringhi
de' suoi cavallie più lontano il pianto
delle Nereidie dentro i lor singhiozzi
sentì più tristasì ma più sommessa
la voce della sua cerulea madre.
Anche sentì tra il sonno alto del campo
passar con chiaro tintinnìo la cetra
di cui tentava il pio cantor le corde;
mentre i cavalli sospendeanfremendo
di dirompere il bianco orzo e la spelta.
Passava il canto tra la morte e il sogno:
qualche avvoltoiosorto su dai morti
gli eroi viventi ventilava in fronte.
Lontanò ella sotto il cielo azzurro
e poi vanì. Né più la intese Achille.
Né gli restavaoltre i cavalli e il carro
da guerra e le stellanti armipiù nulla
se non montare sopra i due cavalli
fulgidoin armicome Soleandando
al suo tramonto. Quando udì vicino
un singulto: Briseide su la soglia
stavae piangevala sua dolce schiava.
Ed egli allora si corcò tenendo
lei tra le bracciacon su lor la pelle
del lion rosso; ed aspettò l'aurora.
LE MEMNONIDI
Ecco apparì l'Aurora che la terra
nera toccava con le rosee dita.
I
Disse: - Uccidesti il figlio dell'Aurora:
non rivedrai né la sua madre ancora!
E sìt'amavo come un suo fratello.
Tu fulvoei nero; nero sìma bello:
tu come rogo che divampa al vento
ei come rogo che la pioggia ha spento:
Memnone amato! E tu dovevi amare
lui nato in cielo figlio tu del mare!
L'azzurro mare ama la terra nera;
il giorno ardente ama l'opaca sera;
l'operail sonno; ama il dolor la morte...
Va dunqueAchillealle Sinistre Porte!
II
Io sì t'amavae ti ricordomolle
della mia guazza la criniera fulva
nella lontana Ftia ricca di zolle:
nei boschiinvasi dall'odor di lauro
del Pelio: lungo lo Sperchèotra l'ulva
pesta dall'ugne del tuo gran Centauro.
Io ti mostrava là su l'alte nevi
i foschi lupi che notturni a zonzo
fiutaron l'antro dove tu giacevi:
e tu gettavi contro loro incauto
la voce ch'ora squilla come bronzo
allor sonava come lidio flauto.
Io ti vedeva predatore impube
correre a piediimmerso nella tua
anima azzurra come in una nube;
iorosseggiandoe con la bianca falce
la luna smortavedevam laggiù
correre un uomo dietro una grande alce.
III
E meco c'era Memnoneche un urlo
dal ciel mandava ai piedi tuoi veloci.
Tu li credevi di laggiù le voci
forse della palustre oca o del chiurlo.
Perché t'amava anch'essoil tuo fratello
crepuscolareche poi te protervo
seduto sopra il boccheggiante cervo
circondava de' suoi strilli d'uccello.
Or egli è pietrae ben che nera pietra
il figlio dell'Aurora ha le sue pene
ché quando io sorgoe piangoei dalle verte
rivibra un pianto come suon di cetra...
forse sospesa a un ramoquale io credo
d'udite ancoraqui tra i pini e i cedri
che al primo sbuffo de' miei due polledri
vibrò chiamando il suo perduto aedo.
IV
E quando io sorgole Memnonie gralle
fanno lor giochiquali intorno un rogo
non come aurighi con Ferèe cavalle
sbalzano in alto sotto il lieve giogo
con la lucida sferza su le spalle;
e né come unti lottatori ignudi
che si serrano a modo di due travi
e né come aspri pugili coi crudi
cesti allacciati intorno ai pugni gravi;
ma come eroicon l'aste e con gli scudi.
Quasi al fuoco d'un rogoal mio barlume
ecco ogni eroe contro un eroe si slancia:
lottano in mezzo alle rosate schiume
del lagoe il molle becco è la lor lancia
e non ferisce sul brocchier di piume.
Guarda le innocue gralle irrequiete
làcon lo scudo ombelicato e il casco!
negli acquitrini dove voi mietete
lanuginose canne di falasco
per tetto della casa altad'abete.
V
Ei piangee vede la mia mano ch'apre
roseadi monte in monteuscì e cancelli;
apretoccando lieve i chiavistelli
alle belanti pecorealle capre;
anche al fanciullo che la verga toglie
curvae si lima i cari occhi col dosso
dell'altra mano: anche al villano scosso
di mezzo ai sogni dall'industre moglie;
anche all'auriga che i cavalli aggioga
al carro asperso ancor del sangue d'ieri
mentre l'eroegià stretti gli stinieri
prende lo scudo per l'argentea soga:
scudo rotondodi lucente elettro
grandecon le cittàcon le capanne
e greggi e mandree corbe d'uva e manne
di spighee un re pei solchicon lo scettro.
VI
Ma te non più porterò viadivino
eroesul carrocol rotondo scudo
ch'ha suon di tibiee dolce cantaAI LINO:
dall'altra parte tornerò del cielo
a serae te con altri ignudi ignudo
io parerò tenendo un aureo stelo;
un aureo stelo con in cima un astro;
e parerò le vostre esili vite
come un pastorecon quel mio vincastro:
un gregge d'ombresenza i folti velli
color viola. E per le vie muffite
v'udrò stridire come vipistrelli.
La bianca Rupe tu vedraidov'ogni
luce tramontatu vedrai le Porte
del Sole e il muto popolo dei Sogni.
E giunto alfine sosterai nel Prato
sparso dei gialli fiori della morte
immortalmenteAchilleaffaticato.
VII
Dove dirai: Fossi lassù garzone
in terra altruidi povero padrone;
ma pur godessial sole ed alla luna
la dolce vita che ad ognuno è una;
e i miei cavalli fossero giovenchi
che lustro il peloi passi hanno sbilenchi;
e ritrovassinell'uscir dal tetto
per asta dalla lunga ombrail pungetto;
e rimirassinell'uscir dal clatro
per carro dal sonante assel'aratro:
l'aratro pio che cigola e lavora
nella penombra della nuova aurora! -
Dicevae già nel cielo era appassita:
venne il Solee s'alzò l'urlo di guerra.
ANTÌCLO
E con un urlo rispondeva Antìclo
dentro il cavalloa quell'aerea voce;
se a lui la bocca non empìa col pugno
Odisseoprontogli altri eroi salvando;
e ognun chiamando tuttavia per nome
la voce alata dileguò lontano;
fin ch'all'orecchio degli eroi non giunse
che il loro corto anelito nel buio;
come già primaquando già lì fuori
impallidiva il vasto urlìo del giorno
l'urlìo venato da virginei cori
che udian dietro una nera ombra di sonno;
nel lungo giorno; e poi languìché forse
era già serae forse già sul mare
tremolava la stella Esperoe forse
la luna piena già sorgea dai monti;
ed allora una voce ecco al cavallo
girare attornoche sonava al cuore
come la voce dolce più che niuna
come ad ognuno suona al cuor sol una
II
Era la donna amataera la donna
lontanaaccorsain quella ora di morte
da molta ombra di montionda di mari:
sbalzò ciascuno quasi a porre il piede
su l'inverdita soglia della casa.
Ma tutti un cenno di Odisseo contenne:
Antìclono. Poi ch'era forte Antìclo
sìma per forza; e non avea la gloria
loquace a cuorema la casa e l'orto
d'alberi lunghi e il solatìo vigneto
e la sua donna. E come udì la voce
della sua donnaegli sbalzò d'un tratto
su molta onda di mariombra di monti;
udì lei nelle stanze alte il telaio
spinger da séscendere l'ardue scale;
e schiuso il luminoso uscio chiamare
lui che la bocca aprìtuttae vi strinse
il grave pugno di Odisseo Cent'arte;
e sentì nella conca dell'orecchio
sibilar come raffica marina:
Helena! Helena! è la Morteinfante!
III
Ma quella voce gli restò nel cuore:;
e quando uscì con gli altri eroi - la luna
piena pendeva in mezzo della notte -
gli nereggiava di grande ira il cuore;
e per tutto egli uccisearsedistrusse.
Gittò nel fuoco i tripodi di bronzo
spinse nel seno alle fanciulle il ferro;
ché non prede voleva; egli voleva
udirtra grida e gemiti e singulti
la voce della sua donna lontana.
Ma era nella sacra Ilio il nemico
di gloria Antìclonon in Arne ancora
fertile d'uvao in Aliarto erboso:
e in un vortice rosso Ilio vaniva
a' piè del plenilunïo sereno.
Morti i guerrierigiù nelle macerie
fumide i Danai ne battean gl'infanti
alle lor navi ne rapian le donne:
e d'Ilio in fiamme al cilestrino mare
dalle Porte al Sigeo bianco di luna
passavano con lunghi ululi i carri.
IV
Ma non ancora alle Sinistre Porte
Antìclo eroe dalla città giungeva.
Lì l'auriga attendeva il suo guerriero
insanguinato; e oro e bronzoil carro
e la giovane schiava alto gemente.
Voto era il carrosolo era l'auriga:
legati con le briglie abili al tronco
del caprificoin cui fischiava il vento
i due cavalli battean l'ugne a terra
fiutando il sanguesbalzando alle vampe.
Ma non giungeva Antìclo: egli giaceva
sul nero sanguepresso l'alta casa
di Deifobo. E dentro eravi ancora
fremere d'irastrepere di ferro:
poi cheintorno all'amante ultimoancora
gli eroi venuti con le mille navi
LocriEtoliFoceiDolopiAbanti
contendean ai Troiani Helena Argiva;
tutti per lei si percotean con l'aste
i vestiti di bronzo e i domatori
di cavalli; e le loro astestridendo
rigavano di lunghe ombre le fiamme.
V
Ma pensava alla sua donna morendo
Antìclopresso l'atrïo sonoro
dell'alta casa. E divampò la casa
come un gran pino; ed al bagliore Antìclo
vide Lèito eroe sul limitare.
Rapido a nome lo chiamò: gli disse:
Lèito figlio d'Alectryonetrova
nell'alta casa il vincitore Atride
di cui s'ode il feroce urlo di guerra.
Digli che fugge alle mie vene il sangue
sì come il vino ad un cratere infranto.
E digli che per lui muoio e che muoio
per la sua donnaed ho la mia nel cuore.
Che venga la divina Helenae parli
a me la voce della mia lontana:
parli la voce dolce più che niuna
come ad ognuno suona al cuor sol una.
VI
Dissee la casa entrò Lèitoe seguiva
tra le fiamme il feroce urlo di guerra
che come tacqueegli trovò l'Atride
poggiato all'asta dalla rossa punta
drittocol piede sopra il suo nemico.
E contro gli sedeva Helena Argiva
tacitasopra l'alto trono d'oro;
e lo sgabello aveva sotto i piedi.
E Lèito disse al vincitore Atride:
Uno mi mandada cui fugge il sangue
sì come il vino da cratere infranto:
Antìcloche muore per teche muore
per la tua donnaed ha la sua nel cuore.
Oh! vada la divina Helenae parli
a lui la voce della sua lontana
la voce dolce forse più che niuna
e come suona forse al cuor sol una.
VII
E cosìmentre già moriva Antìclo
veniva a lui con mute orme di sogno
Helena. Ardeva intorno a lei l'incendio
su l'incendio brillava il plenilunio.
Ella passava tacita e serena
come la lunasopra il fuoco e il sangue.
Le fiammeun guizzoal suo passarpiù alto;
spremeano un rivo più sottil le vene.
E scrosciavano l'ultime muraglie
e sonavano gli ultimi singulti.
Stette sul capo al moribondo Antìclo
pensoso della sua donna lontana.
Tacquero allora intorno a lei gli eroi
rauchi di stragee le discinte schiave.
E già la bocca apriva ella a chiamarlo
con la voce lontanacon la voce
della sua donnache per sempre seco
egli nell'infinito Hade portasse;
la rosea bocca apriva già; quand'egli
- No - disse: - voglio ricordar te sola. -
IL SONNO DI ODISSEO
I
Per nove giornie notte e dìla nave
nera filòché la portava il vento
e il timonieree ne reggeva accorta
la grande mano d'Odisseo le scotte;
nélassoad altri le cedeaché verso
la cara patria lo portava il vento.
Per nove giornie notte e dìla nera
nave filòné l'occhio mai distolse
l'eroecercando l'isola rupestre
tra il cilestrino tremolìo del mare;
pago se prima di morir vedesse
balzarne in aria i vortici del fumo.
Nel decimolà dove era vanito
il nono sole in un barbaglio d'oro
ora gli apparse non sapea che nero:
nuvola o terra? E gli balenò vinto
dall'alba dolce il grave occhio: e lontano
s'immerse il cuore d'Odisseo nel sonno.
II
E venne incontro al volo della nave
eccouna terrae veleggiava azzurra
tra il cilestrino tremolìo del mare;
e con un monte ella prendea del cielo
e giù dal monte spumeggiando i botri
scendean tra i ciuffi dell'irsute stipe;
e ne' suoi poggi apparvero i filari
lunghi di vitied a' suoi piedi i campi
vellosi della nuova erba del grano:
e tutta apparve un'isola rupestre
duranon buona a pascere polledri
ma sì di capre e sì di buoi nutrice:
e qua e là sopra gli aerei picchi
morian nel chiaro dell'aurora i fuochi
de' mandrïani; e qua e là sbalzava
il mattutino vortice del fumo
d'Itacaalfine: ma non già lo vide
notando il cuore d'Odisseo nel sonno.
III
Ed ecco a prua dell'incavata nave
volar parolesimili ad uccelli
con fuggevoli sibili. La nave
radeva allora il picco alto del Corvo
e il ben cerchiato fonte; e se n'udiva
un grufolare fragile di verri;
ed ampio un chiuso si scorgeadi grandi
massi ricinto ed assiepato intorno
di salvatico pero e di prunalbo;
ed il divino mandrïan dei verri
presso la spiaggiadella nera scorza
spogliava con l'aguzza ascia un querciolo
e grandi pali a rinforzare il chiuso
poi ne tagliò coi morsi aspri dell'ascia;
e sì e no tra lo sciacquìo dell'onde
giungeva al mare il roco ansar dei colpi
d'Eumeo fedele: ma non già li udiva
tuffato il cuore d'Odisseo nel sonno.
IV
E già da pruasopra la navea poppa
simili a freccieandavano parole
con fuggevoli fremiti. La nave
era di faccia al porto di Forkyne;
e in capo ad esso si vedea l'olivo
grandefronzutoe presso quello un antro:
l'antro d'affaccendate api sonoro
quando in crateri ed anfore di pietra
filano la soave opra del miele:
e si scorgeva la sassosa strada
della città: si distingueatra il verde
d'acquosi ontanila fontana bianca
e l'ara biancaed una eccelsa casa:
l'eccelsa casa d'Odisseo: già forse
stridea la spola fra la tramae sotto
le stanche dita ricrescea la tela
ampiaimmortale... Oh! non udì né vide
perduto il cuore d'Odisseo nel sonno.
V
E su la navenell'entrare il porto
il peggio vinse: sciolsero i compagni
gli otrie la furia ne fischiò dei venti:
la vela si svoltòsi sbattécome
peplocui donna abbandonò disteso
ad inasprire sopra aereo picco:
eccoe la nave lontanò dal porto;
e un giovinetto stava già nel porto
poggiato all'asta dalla bronzea punta:
e il giovinetto sotto il glauco olivo
stava pensoso; ed un veloce cane
correva intorno a lui scodinzolando:
e il cane dalle volte irrequïete
sostòcon gli occhi all'infinito mare;
e com'ebbe le salse orme fiutate
ululò dietro la fuggente nave:
Argoil suo cane: ma non già l'udiva
tuffato il cuore d'Odisseo nel sonno.
VI
E la nave radeva ora una punta
d'Itaca scabra. E tra due poggi un campo
eraben culto; il campo di Laerte;
del vecchio re; col fertile pometo;
coi peri e meli che Laerte aveva
donati al figlio tuttavia fanciullo;
ché lo seguiva per la vignae questo
chiedeva degli snelli alberi e quello:
tredici peri e dieci meli in fila
stavanobianchi della lor fiorita:
all'ombra d'unoall'ombra del più bianco
era un vecchiopoggiato su la marra:
il vecchiovolto all'infinito mare
dove mugghiava il subito tumulto
limando ai faticati occhi la luce
riguardò dietro la fuggente nave:
era suo padre: ma non già lo vide
notando il cuore d'Odisseo nel sonno.
VII
Ed i venti portarono la nave
nera più lungi. E subito aprì gli occhi
l'eroerapidi aprì gli occhi a vedere
sbalzar dalla sognata Itaca il fumo;
e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso
ben cintoe forse il padre suo nel campo
ben culto: il padre che sopra la marra
appoggiato guardasse la sua nave;
e forse il figlio che poggiato all'asta
la sua nave guardasse: e lo seguiva
certoe intorno correa scodinzolando
Argoil suo cane; e forse la sua casa
la dolce casa ove la fida moglie
già percorreva il garrulo telaio:
guardò: ma vide non sapea che nero
fuggire per il violaceo mare
nuvola o terra? e dileguar lontano
emerso il cuore d'Odisseo dal sonno.
L'ULTIMO VIAGGIO
I
LA PALA
Ed il timone al focolar sospese
in Itaca l'Eroe navigatore.
Stanco giungeva da un error terreno
grave ai garrettich'egli avea compiuto
reggendo sopra il grande omero un remo.
Quelli cercava che non sanno il mare
né navi nere dalle rosse prore
e non miste di sale hanno vivande.
E già più lune s'erano consunte
tra scabre rupinel cercare in vano
l'azzurro mare in cui tuffar la luce;
né da gran tempo più sentiva il cielo
l'odor di salema l'odor di verde:
quando gli occorse un altro passeggero
che disse; e il vento che ululò notturno
si dibattevaintorno loroai monti
come orso in una fossa alta caduto:
Uomo stranieroal re tu muovi? Oh! tardo!
Al regià mondo è nel granaio il grano.
Un dio mandò quest'alitoche soffia
anc'oggie ieri ventilò la lolla.
Oggio tarda opravana è la tua pala.
Disse; ma il cuore tutto rise accorto
all'Eroe che pensava le parole
del mortociecodallo scettro d'oro.
Ché cieco ei vedee tutto sa pur morto:
tra gli alti pioppi e i salici infecondi
nella caligoeglibevuto al botro
il sanguedisse: Miseroavrai pace
quando il ben fatto remo della nave
ti sia chiamato un distruttor di paglie.
Ed ora il cuorea quel pensiergli rise
E disse: Uomo terrestreala! non pala!
Ma sia. Ben ora qui fermarla io voglio
nella compatta aridità del suolo.
Un fine ha tutto. In ira a un dio da tempo
io volo foglia a cui s'adira il vento.
E l'altro ancora ad Odisseo parlava:
Chidonde sei degli uomini? venuto
cometra noi? Non già per l'aere brullo
come alcuno dei cigni longicolli
ma scambiando tra loro i due ginocchi.
Parlamie narra senza giri il vero.
II
L'ALA
E rispose l'Eroe molto vissuto:
Tutto ti narro senza giri il vero.
Sonoa voi sconosciutiuominianch'essi
mortali sìmacome deicelesti
che non coi piedicome i lenti bovi
vannoe con la vicenda dei ginocchi
ma con la spinta delle aeree braccia
come gli uccellied hanno il color d'aria
sotto sévasto. Io vidi viaggiando
sbocciar le stelle fuor del cielo infranto
sotto questi occhie il guidator del Carro
venir con me fischiando ai buoi lontano
e l'auree rote lievi sbalzar sulla
tremola ghiaia della strada azzurra.
Né sempre l'ali noi tra cielo e cielo
battiamo: spesso noi prendiamo il vento:
a mezzo un ringhio acutoper le froge
larghe prendiamo il vano vento folle
che ci conducae con la forte mano
le briglie io reggo per frenarlo al passo.
Ma un dio ce n'odiacome voi la terra
odiache voi sostenta sìma spezza.
Ch'ha tutto un fine. Or tu fa che un torello
dal re mi vengaed un agnello e un verro;
che qui ne onori quell'ignoto iddio.
E l'altro ancora rispondea stupito:
L'ignoto è grandee grande piùse dio.
Or vieni al reche raddolcito ha il cuore
oggiche il grano gli avanzò le corbe.
Così l'eroe divino in una forra
selvosa il remo suo piantòla lieve
ala incrostata dalla salsa gromma.
Al dio sdegnato per il suo Ciclope
egli uccise un torello ed un agnello
e terzo un verro montator di scrofe;
e poi discesee insieme a lui più lune
venneroe l'una dopo l'altra ognuna
ségirando tra roccie aspreconsunse.
L'ultimapiena tremolò sul mare
riscintillantee su la bianca sabbia
piccola e nera gli mostrò la nave
e i suoi compagnich'attendean guardando
a montemuti. Ed ei salpò. Sbalzare
vide ancora le rote auree del Carro
sopra le ghiaie dell'azzurra strada:
rivide il fumo salir surivide
Itaca scabrae la sua grande casa.
Dove il timone al focolar sospese.
III
LE GRU NOCCHIERE
E un canto allora venne a lui dall'alto
di su le nubidi raminghe gru.
Sospendi al fumo ora il timonee dormi.
Le Gallinelle fuggono lo strale
già d'Orïonee son cadute in mare.
Rincalza su la spiaggia ora la nave
nera con pietreche al ventar non tremi
Eroe; ché sono per soffiare i venti.
L'alleggio della stiva apriche l'acqua
scoli e non faccia poi funghir le doghe
Eroe; ché sono per cader le pioggie.
Sospendi al fumo ora il timonee in casa
tieni all'asciutto i canapi ritorti
ogni armaogni ala della navee dormi.
Ché viene il vernoviene il freddo acuto
che fa nei boschi bubbolar le fiere
che fuggono irte con la coda al ventre:
quando a tre piediil filo della schiena
rotto a metàla grigia testa bassa
il vecchio va sotto la neve bianca;
e il randagio pitocco entra dal fabbro
nella fucina apertae prende sonno
un poco al caldo tra l'odor di bronzo.
Navigatore di cent'artidormi
nell'alta casaose ti piacesolca
ora la terradopo arata l'onda.
Questo era canto che rodeva il cuore
del timoniereche volgea la barra
verso un approdoe tedio avea dell'acqua;
ché passavanoagli uomini gridando
giunto il maltempoventi nevi pioggie
e lo sparire delle stelle buone;
e tra le nubi esse con fermo cuore
gittando rauche grida alla burrasca
andavanoe coi remi battean l'aria.
IV
LE GRU GUERRIERE
DiceanDormial nocchieroAraal villano
di su le nubile raminghe gru.
Ara: la stanga dell'aratro al giogo
lega dei bovi; ché tu n'haiben d'erbe
saziin capannao figlio di Laerte.
Fatti col cuoio d'un di loroucciso
un paio d'uoseche difenda il freddo
ma prima il dentro addenserai di feltro;
e cucirai coi tendini del bove
pelli de' primi nati dalle capre
che a te dall'acqua parino le spalle;
e su la testa ti porrai la testa
d'un vecchio lupoche ti scaldie i denti
bianchi digrigni tra il nevischio e i venti.
Arare il camponon il mareè tempo
da che nel cielo non si fa vedere
più quel branchetto delle sette stelle.
Sessanta giorni dopo volto il sole
quando ritorni il conduttor del Carro
allor dolce è la brezzail mare è calmo;
brilla Boote a serae sul mattino
tornata già la rondine cinguetta
che il mare è calmo e che dolce è la brezza.
La brezza chiama a sé la velail mare
chiama a sé il remo; e resta qua canoro
il cuculo a parlare al vignaiolo.
Questo era canto che mordeva il cuore
a chi non bovi e sol avea l'aratro;
ch'egli ha bel direPrestami il tuo paro!
Son le faccendeed ora ogni bifolco
seminae poisicuro della fame
ode venti fischiareacque scrosciare
ilare. E intanto essele grumoveano
verso l'Oceanoa guerrain righe lunghe
empiendo il cielo d'un clangor di trombe.
V
IL REMO CONFITTO
E per nove anni al focolar sedeva
di sua casal'Eroe navigatore:
ché più non gli era alcuno error marino
dal fato ingiunto e alcuno error terrestre.
Sìla vecchiaia gli ammollia le membra
a poco a poco. Ora dovea la morte
fuori del mare giungerglisoave
molto soavee né coi dolci strali
dovea ferirloma fiatar leggiera
sopra la face cui già l'uragano
frustòma fece divampar più forte.
E i popoli felici erano intorno
che il figlionato lungi alle battaglie
savio reggeva in abbondevol pace.
Crescean nel chiuso del fedel porcaio
floridi i verri dalle bianche zanne
e nei ristretti pascoli più tanti
erano i bovi dalle larghe fronti
e tante più dal Nerito le capre
pendean strappando irsuti pruni e stipe
e molto sotto il tetto alto giaceva
orobronzoolezzante olio d'oliva.
Ma raro nella casa era il convito
né più sonava l'ilare tumulto
per il grande atrio umbratile; ché il vecchio
più non bramava terghi di giovenco
né coscie gonfie d'adipedi verro;
amavainvanola fioril vivanda
il dolce lotocui chi mangiaè pago
né altro chiede che brucar del loto.
Così le soglie dell'eccelsa casa
or d'Odissèo dimenticò l'aedo
dai molti cantie il lacero pitocco
che l'un corrompe e l'altro orna il convito.
E il Laertiade ora vivea solingo
fuori del marecome il vecchio remo
scabro di salsa grommache piantato
lungi avea dalle salse aure nel suolo
e strettoloalatra le glebe gravi.
E il grigio capo dell'Eroe tremava
avanti al mormorare della fiamma
come lànella valle solitaria
quel remo al soffio della tramontana.
VI
IL FUSO AL FUOCO
E per nove anni ogni anno udì la voce
di su le nubidelle gru raminghe
che diceanoArache diceanoDormi;
ed alternando squilli di battaglia
coi remi in lunghe righe battean l'aria:
mentre noi guerreggiamoarao villano;
dormio nocchieronoi veleggeremo.
E il canto il cuore dell'Eroe mangiava
chiuso alle genti come un aratore
cui per sementa mancano i due bovi.
Sedeva al fuocoe la sua vecchia moglie
la bene oprantecontro lui sedeva
tacita. E per le fauci del camino
fuligginoseallo spirar de' venti
umidiardeano fisse le faville;
ardeanlievi sbraciandole faville
sul putre dorso dei lebeti neri.
Su quelle intento si perdea con gli occhi
avvezzi al cielo il corridor del mare.
E distingueva nel sereno cielo
le fuggitive Pleiadi e Boote
tardi cadente e l'Orsaanche nomata
il Carroche lì sempre si rivolge
e sola è sempre del nocchier compagna.
E il fulgido Odisseo dava la vela
al vento ugualee ferree avea le scotte
e i buoni suoi remigatori stanchi
poneano i remi lungo le scalmiere.
La nave con uno schioccar di tela
correa da sé nella stellata notte
e prendean sonno i marinai su i banchi
e lei portava il vento e il timoniere.
L'Eroe giaceva in un'irsuta pelle
sopra copertaa poppa della nave
edietro il caposi fendeva il mare
con lungo scroscio e subiti barbagli.
Egli era fisso in altonelle stelle
ma gli occhi il sonno gli premeasoave
e non sentiva se non sibilare
la brezza nelle sartie e nelli stragli.
E la moglie appoggiata all'altro muro
faceva assiduo sibilare il fuso.
VII
LA ZATTERA
E gli dicea la veneranda moglie:
Divo Odisseomi sembra oggi quel giorno
che ti rividi. Io ti sedea di contro
quinel mio seggio. Stanco eri di mare
eridivo Odisseosazio di sangue!
Come ora. Muto io ti vedeva al lume
del focolarefissi gli occhi ingiù.
Fissi in giù gli occhipresso la colonna
egli taceva: ché ascoltava il cuore
suo che squittiva come cane in sogno.
E qualche foglia d'ellera sul ciocco
secco crocchiavae d'uno stizzo il vento
uscìa fischiando; ma l'Eroe crocchiare
udiva un po' la zattera compatta
opera sua nell'isola deserta.
Su la decimottava alba la zattera
egli sentì brusca salire al vento
stridulo; e l'uomo su la barca solo
erae sola la barca era sul mare:
soli con qualche errante procellaria.
E di là donde tralucea già l'alba
ora appariva una catena fosca
d'aeree nubie torbide a prua l'onde
picchiavano; ecco e si sventò la vela.
E l'uomo allora udì di contro un canto
di torte conchee divinò che dietro
quelle il nemicoil truce dio del mare
venìa tornando ai suoi cerulei campi.
Lui videe rise il dio con uno schianto
secco di tuono che rimbombò tetro;
e venne. Udiva egli lo sciabordare
delle ruote e il nitrir degli ippocampi.
E volavano al cielo alto le schiume
dalle lor bocche masticanti il morso;
e l'uragano fumido di sghembo
sferzava lor le groppe di serpente.
Soli nel mare erano l'uomo e il nume
e il nume ergeva su l'ondate il torso
largoe scoteva il gran capo; e tra il nembo
folgoreggiava il lucido tridente.
E il Laertiade al cuore suo parlava
ch'altri non v'era; e sotto avea la barra.
VIII
LE RONDINI
E per nove anni egli aspettò la morte
che fuor del mare gli dovea soave
giungere; e sìnel decimosu l'alba
giunsero a lui le rondinidal mare.
Egli dormia sul letto traforato
cui sosteneva un ceppo d'oleastro
barbato a terra; e marinai sognava
parlare sparsi per il mare azzurro.
E si destò con nell'orecchio infuso
quel vocìo fioco; ed ascoltò seduto:
erano rondinie sonava intorno
l'umbratile atrio per il lor sussurro.
E si gittò sugli Omeri le pelli
caprineai piedi si legò le dure
uose bovine: e su la testa il lupo
facea nell'ombra biancheggiar le zanne.
E piano uscì dal talamonon forse
udisse il lieve cigolio la moglie;
ma lei teneva un sonno altodivino
molto soavesimile alla morte.
E il timone staccò dal focolare
affumicatoe prese una bipenne.
Ma non moveva il molto accorto al mare
subitosì per colli irti di quercie
per un vïotterello asproe mortali
trovò ben pochi per la via deserta;
e disse a un mandriano segaligno
che per un pioppo secco era la scure;
e disse ad una riccioluta ancella
che per uno stabbiolo era il timone:
così parlava il tessitor d'inganni
e non senz'ali era la sua parola.
E poi soletto deviò volgendo
l'astuto viso al fresco alito salso.
Le quercie ai piedi gli spargean le foglie
roggie che scricchiolavano al suo passo.
Gemmava il ficobiancheggiava il pruno
e il pero avea ne' rosei bocci il fiore.
E di su l'alto Nerito il cuculo
contava arguto il su e giù de l'onde.
E già l'Eroe sentiva sotto i piedi
non più le foglie ma scrosciar la sabbia;
né più pruni fioritima vedeva
i giunchi scabri per i bianchi nicchi;
e infine apparve avanti al mare azzurro
l'Eroe vegliardo col timone in collo
e la bipenne; e l'inquieto mare
mare infinitofragoroso mare
su la duna lassù lo riconobbe
col riso innumerevole dell'onde.
IX
IL PESCATORE
Ma lui vedendoecco di subito una
rondine deviò con uno strillo.
Ch'ella tornava. Ora Odisseo con gli occhi
cercava tutto il grigio lido curvo
s'egli vedesse la sua nave in secco.
Ma non la vide; e vide un uomoun vecchio
di triti pannichino su la sabbia
raspare dove boccheggiava il mare
alternamente. A lui fu soprae disse:
Abbiamo nullao pescator di rena?
Ben vidierrando su la nave nera
uomo seduto in uno scoglio aguzzo
reggere un filo pendulo sul flutto;
ma il lungo filo tratto giù dal piombo
porta ai pesci un adunco amo di bronzo
che sì li uncina; e ne schermisce il morso
un liscio cerchio di bovino corno.
Ché l'uomoquando è roso dalla fame
mangia anche il sacro pesce che la carne
cruda divora. Io vidianzimortali
gittar le reti dalle curve navi
sempre alïando sui pescosi gorghi
come le folaghe e gli smerghi ombrosi.
E vidi i pesci nella grigia sabbia
avvoltolarsiper desìo dell'acqua
versati fuori della rete a molte
maglie; e morire luccicando al sole.
Ma non vidi senz'amo e senza rete
niuno mai fare tali umide prede
o vecchioe niuno farsi mai vivanda
di tali scabre chiocciole dell'acqua
che indosso hanno la naveoppur dei granchi
che indosso hanno l'incudine dei fabbri.
E il malvestito al vecchio Eroe rispose:
Tristo il mendico che al convito sdegna
cibo che lo scettrato re gli getta
sia tibia ossuta od anche pingue ventre.
Ché il Tuttobuonoha tristo figlio: il Niente.
Prendo ciò che il mio grande ospite m'offre
che donacupo brontolando in cuore
ma dona: il mare fulgido e canoro
ch'è sordo in veroma più sordo è l'uomo.
Or al mendico il vecchio Eroe rispose:
O non ha la rupestre Itaca un buono
suo re ch'ha in serbo molto bronzo e oro?
che verri impinguanegli stabbie capre?
cui molto odora nei canestri il pane?
Non forse il senno d'Odisseo qui regge
che molto erròmolto in suo cuor sofferse?
e fu pitocco e malvestito anch'esso.
Non sai la casa dal sublime tetto
del Laertiade fulgido Odisseo?
X
LA CONCHIGLIA
Il malvestito non volgeva il capo
dal mare alternoed al ricurvo orecchio
teneva un'aspra tortile conchiglia
come ascoltasse. Or all'Eroe rispose:
O Laertiade fulgido Odisseo
so la tua casa. Ma non io pitocco
querulo sonopoi che fui canoro
eroemaestro io solo a me. Trovai
sparsi nel cuore gl'infiniti canti.
A te cantaidivo Odisseoda quando
pieno di morti fu l'umbratile atrio
simili a pesci quali il pescatore
lasciò morire luccicando al sole.
E vedo ancor le schiave moriture
terger con acqua e con porose spugne
il sanguee molto era il singulto e il grido.
A te cantavoe tu bevendo il vino
cheto ascoltavi. E poi t'increbbe il detto
minor del fatto. Ascolto or io l'aedo
soloin silenzio. Ché gittai la cetra
io. La raccolse con la mano esperta
solo di scotte un marinaioun vecchio
dagli occhi rossi. Or chi la tocca? Il vento.
Or all'Aedo il vecchio Eroe rispose:
Terpiade Femioe me vecchiezza offese
e te: ché tolse ad ambedue piacere
ciò che già piacque. Ma non mai che nuova
non mi paresse la canzon più nuova
di Femioo Femio; più nuova e più bella:
m'erano vecchie d'Odisseo le gesta.
Sonno è la vita quando è già vissuta:
sonno; ché ciò che non è tuttoè nulla.
Iodesto alfine nella patria terra
ero com'uomo che nella novella
alba sognòné sa qual sognoe pensa
che molto è dolce a ripensar qual era.
Or io mi voglio rituffar nel sonno
s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno.
Tu verrai meco. Ma mi narra il vero:
qual canto ascoltidi qual dolce aedo?
Ch'io non sonella scabra isolache altri
abbia nel cuore inseminati i canti.
E il vecchio Aedo al vecchio Eroe rispose:
Questodi questo. Un nicchio vileun lungo
tortile nicchioaspro di fuoriazzurro
di dentroe purononEroepiù grande
del nostro orecchio; e tutto ha dentro il mare
con le burrasche e le ritrose calme
coi venti acuti e il ciangottìo dell'acque.
Una conchigliabreveperché l'oda
il breve orecchioma che il tutto v'oda;
tale è l'Aedo. Pure a te non piacque.
Con un sorriso il vecchio Eroe rispose:
Terpiade Femioassai più grande è il mare!
XI
LA NAVE IN SECCO
E il vecchio Aedo e il vecchio Eroe movendo
seguian la spiaggia del sonante mare
molto pensandoe làsul curvo lido
piccola e neraapparve lor la nave.
Vedean la poppae n'era lunga l'ombra
sopra la sabbia; né molt'alto il sole.
E sopra lei bianchi tra mare e cielo
galleggiavano striduli gabbiani.
E vide l'occhio dell'Eroe che fresca
era la pece: e vide che le pietre
giaceano in parteché placato il vento
già non faceva più brandir la nave;
e vide in giro dagli scalmi acuti
pender gli stroppi di bovino cuoio;
e vide dal righino alto di poppa
sporger le pale di ben fatti remi.
Gli rise il cuorepoi che pronta al corso
era la nave; e le moveva intorno
come al carro di guerra agile auriga
prima di addurre i due cavalli al giogo.
E venuto alla prua rossa di minio
sopra la sabbia vide assisi in cerchio
i suoi compagni tutti volti al mare
tacitamente; e si godeano il sole
e la primaverile brezza arguta
s'udian fischiare nelle bianche barbe.
Sedean come per uso i longiremi
vecchi compagni d'Odisseo sul lido
e da dieci anni lo attendean sul mare
col tempo bello e con la nuova aurora.
E veduta la rondinele donne
recavano alla nave alte sul capo
l'anfore piene di fiammante vino
e pieni d'orzo triturato gli otri.
E prima che la nuova alba spargesse
le rose in cieloessi veniano al mare
i longiremi d'Odisseo compagni
reggendo sopra il forte omero i remi
ognuno il suo. Poi su la rena assisi
stavanosotto la purpurea prora
con gli occhi rossi a numerar le ondate
ad ascoltarsi il vento nelle barbe
ad ascoltare striduli gabbiani
cantare in mare marinai lontani.
Poi quando il sole si tuffava e quando
sopra venia l'oscuritàciascuno
prendeva il remoed alle sparse case
tornavan muti per le strade ombrate.
XII
IL TIMONE
Ed eccoappena il vecchio Eroe comparve
sorsero tuttifermi in lui con gli occhi.
Come quando nel verno ispido i bovi
giaccionoavvintiinnanzi al lor presepe;
sdraiati a terra ruminano il pasto
poveromentre frusciano l'acquate;
se con un fascio d'odoroso fieno
viene il bifolcosorgonopur lenta-
mentené gli occhi stolgono dal fascio:
così sorsero i vecchima nessuno
gli andavastretto da pudorpiù presso.
Ed eglisotto il teschio irto del lupo
così parlò tra lo sciacquìo del mare:
Compagniudite ciò che il cuor mi chiede
sino da quando ritornai per sempre.
Per sempre? chieseeNorispose il cuore.
Tornareei volle; terminarnon vuole.
Si dessegiunti alla lor selvaai remi
barbàre in terra e verzicare abeti!
Ma no! Né può la nera nave al fischio
del vento dar la tonda ombra di pino.
E pur non vuole il rosichìo del tarlo
ma l'ondatama il vento e l'uragano.
Anch'io la nube voglioe non il fumo;
il ventoe non il sibilo del fuso
non l'odïoso fuoco che sornacchia
ma il cielo e il mare che risplende e canta.
Compagnicome il nostro mare io sono
ch'è bianco all'orloma cilestro in fondo.
Io non so chelasciaiquando alla fune
diedilo stolto che pur fuila scure;
nell'antro a mare ombrato da un gran lauro
nei prati molli di viola e d'appio
o dove erano cani d'oro a guardia
immortalmentedella grande casa
e dove uomini in forma di leoni
battean le lunghe code in veder noi
o non so dove. E vi ritorno. Io vedo
che ciò che feci è già minor del vero.
Voi lo sapeteche portaste al lido
negli otri l'orzo trituratoe il vino
color di fiamma nel ben chiuso doglio
che l'uno è sangue e l'altro a noi midollo.
E spalmaste la pece alla carena
ch'è come l'olio per l'ignudo atleta;
e portaste le gomene che serpi
dormono in groppo o sibilano ai venti;
e toglieste le pietreanche portaste
l'aerea vela; alla dormente nave
che sempre sogna nel giacere in secco
portaste ognun la vostra ala di remo;
e ora dunque alla ben fatta nave
che manca piùvecchi compagni? Al mare
la vecchia nave: amiciecco il timone.
Così parlò tra il sussurrìo dell'onde.
XIII
LA PARTENZA
Ed ecco a tutti colorirsi il cuore
dell'azzurro color di lontananza;
e vi scorsero l'ombra del Ciclope
e v'udirono il canto della Maga:
l'uno parava sufolando al monte
pecore tantequante sono l'onde;
l'altra tessea cantando l'immortale
sua tela così grande come il mare.
E tutti al mare trassero la nave
su travi tondecome su le ruote;
e avvinsero gli ormeggi ad un lentisco
che verzicava sopra un erto scoglio;
e già salitoil vecchio Eroe nell'occhio
fece passar la barra del timone;
e stette in piedi sopra la pedagna.
Era seduto presso lui l'Aedo.
E con un cenno fece ai remiganti
salir la nave ed impugnare il remo.
Egli tagliò la fune con la scure.
E cantava un cuculo tra le fronde
cantava nella vigna un potatore
passava un gregge lungo su la rena
con incessante gemere d'agnelli
ricciute donne in lavatoi perenni
batteano a gara i panni alto cianciando
e dalle case d'Itaca rupestre
balzava in alto il fumo mattutino.
E i marinai seduti alle scalmiere
facean coi remi biancheggiar il flutto.
E Femio vide sopra un alto groppo
di cavi attorti la vocal sua cetra
la cetra ch'egli avea gittatae un vecchio
dagli occhi rossi lieto avea raccolta
e portata alla naveai suoi compagni;
ed era a tuttil'aurea cetraa cuore
come a bambino infante un rondinotto
mortoche così morto egli carezza
lieve con dita inabili e gli parla
e teme e spera che gli prenda il volo.
E Femio prese la sua cetrae lieve
la toccòpoiforte intonò la voga
ai remiganti. E quell'arguto squillo
svegliò nel cuore immemore dei vecchi
canti sopiti; e curvi sopra i remi
cantarono con rauche esili voci.
- Ecco la rondine! Ecco la rondine! Apri!
ch'ella ti porta il bel tempoi belli anni.
È nera sopraed il suo petto è bianco.
È venuta da uno che può tanto.
Oh! apriti da teuscio di casa
ch'entri costì la pace e l'abbondanza
e il vino dentro il doglio da sé vada
e il pane d'orzo empia da sé la madia.
Uno anc'a noicol sesamopuoi darne!
Prestoché non siam qui per albergare.
Apriché sto su l'uscio a piedi nudi!
Apriché non siam vecchi ma fanciulli! -
XIV
IL PITOCCO
Cantavano; e il lor canto era fanciullo
dei tempi andati; non sapean che quello.
E nella stiva in cui giaceva immerso
nel dolce sonnosi stirò le braccia
e si sfregò le palpebre coi pugni
Iroil pitocco. E niuno lo sapeva
laggiùqual grosso baco che si chiude
in un irsuto bozzolo lanoso
forse a dormire. Ché solea nel verno
lì nella nave d'Odisseo dormire
se lo cacciava dalla calda stalla
l'uomo bifolcoo s'ei temeva i cani
del pecoraio. Nella buona estate
dormia sotto le stelle alla rugiada.
Ora quivi obliava la vecchiaia trista
e la fame; quando il suono e il canto
lo destò. Dentro gli ondeggiava il cuore:
Non odo il suono della cetra arguta?
Dunque non era sogno il mioche or ora
portavo ai prociai proci mortiun messo:
ed ecco nell'opaco atrio la cetra
udivoe le lor voci esili e rauche.
Invero udiva il tintinnio tuttora
e il canto fioco tra il fragor dell'onde
qual di querule querule ranelle
per un'acquataquando ancor c'è il sole.
E tra sé favellava Ito il pitocco:
O son presso ad un vero atrio di vivi?
e forse alcuno mi tirò pel piede
sino al cortilepoi che la mascella
sotto l'orecchio mi fiaccò col pugno?
Come altra voltache Odisseo divino
lottò con Iromalvestiti entrambi.
Così pensando si rizzò sui piedi
e su le manie gli fiottava il capo
e movendo traballava come ebbro
di molto vino; e ad Odisseo comparve
nuotando a vuotoed ai remigatori
terribile. Ecco e s'interruppe il canto
e i remi alzati non ripreser l'acqua
e la nave da prua si drizzòcome
cavallo indomitoe lanciò supino
a piè di Femio e d'Odisseo seduti
Iro il pitocco. E lo conobbe ognuno
quandoabbrancati i lor ginocchisorse
inginocchionie gli grondava il sangue
giù per il mento dalle labbra e il naso.
E un dolce riso si levò di tutti
altoinfinito. Ed egli allor comprese
e vide dileguare Itacae vide
sparir le caseonde balzava il fumo:
e le due coscie si percosse e pianse.
E sorridendo il vecchio Eroe gli disse:
Soffri. Hai qui tetto e lettoe orzo e vino.
Sii nella nave il dispensier del cibo
e bevi e mangia e dormiIro non-Iro.
XV
LA PROCELLA
E sopra il flutto nove dì la nave
corse sospinta dal remeggio alato
e notte e giornoché Odisseo due schiere
dinumerò degl'incliti compagni;
e l'una al sonno e l'altra era alla voga.
Nel decimo l'aurora mattiniera
a un lieve vento dispergea le rose.
Ei dalla scassa l'albero d'abete
levòlo congegnò dentro la mastra
e con drizze di cuoio alzò la vela
ben tortoe saldi avvinse alle caviglie
di prua gli straglima di poppa i bracci.
E il vento urtò la vela in mezzoe il flutto
rumoreggiava intorno alla carena.
E legarono allora anche le scotte
lungo la nave che correa veloce:
e pose in mezzo un'anfora di vino
Iro il pitoccoed arrancando intorno
lo ministrava ai marinai seduti;
e sorse un riso. E nove dì sul flutto
li resse in corsa il vento e il timoniere.
Nel decimo tra nubi era l'aurora
e venne notteed una aspra procella
tre quattro strappi fece nella vela;
e il Laertiade ammainò la vela
e disse a tutti di gettarsi ai remi;
ed essi curvi sopra sé di forza
remigavano. E nove dì sbalzati
eran dai flutti e da funesti venti.
Infine i venti rappaciati e i flutti
sul far di seravidero una spiaggia.
A quella spinse il vecchio Eroe la nave
in un seno tranquillo come un letto.
E domati da sonno e da stanchezza
dormian sul lidoove batteva l'onda.
Ma non dormiva egliOdisseopur vinto
dalla stanchezza. Ché pensava in cuore
d'essere giunto all'isola di Circe:
vedea la casa di pulite pietre
come in un sognoe sorgere leoni
lentie le rosse bocche allo sbadiglio
apriree un poco già scodinzolare;
e risonava il grande atrio del canto
di tessitrice. Ora Odisseo parlava:
Terpiade Femiodormi? Odimi: il sogno
dolce e dimenticato ecco io risogno!
Era l'amore; ch'ora mi sommuove
come procella omai finitail cuore.
Diceva; e nella notte alta e serena
dormiva il ventoe vi sorgea la falce
su macchie e selvedella bianca luna
già presso al finee s'effondea l'olezzo
di grandi aperti calici di fiori
non mai veduti. Ed il gran mare ancora
si ricordavae con le lunghe ondate
bianche di schiuma singhiozzava al lido.
XVI
L'ISOLA EEA
E con la luce rosea dell'aurora
s'avvidech'era l'isola di Circe.
E disse a Femioal molto caro Aedo:
Terpiade Femiovieni a me compagno
con la tua cetrach'ella oda il tuo canto
mortalee tu l'eterno inno ne apprenda.
E disse ad Irodispensier del cibo:
Con gli altri presso il grigio mar tu resta
e mangia e bevich'ella non ti batta
con la sua vergae n'abbi poi la ghianda
per ciboe piangasgretolando il cibo
con altra voceo Iro non-più-Iro.
Così diceva sorridendoe mosse
col dolce Aedoper le macchie e i boschi
e vide il passo donde l'alto cervo
d'arboree corna era disceso a bere:
Ma non vide la casa alta di Circe.
Or a lui disse il molto caro Aedo:
C'è addietro. Una tempesta è il desiderio
ch'agli occhi è nube quando ai piedi è vento.
Ma il luogo egli conobbeove gli occorse
il dio che salvae riconobbe il poggio
donde strappò la buona erbache nera
ha la radicee come latte il fiore.
E non vide la casa alta di Circe.
Or a lui disse il molto caro Aedo:
C'è innanzi. La vecchiezza è una gran calma
che molto stancama non molto avanza.
E proseguì pei monti e per le valli
e selve e boschiattento s'egli udisse
lunghi sbadigli di leonidésti
al lor passaggioo l'immortal canzone
di tessitricedella dea vocale.
E nulla udì nell'isola deserta
e nulla vide; e si tuffava il sole
e la stellata oscurità discese.
E l'Eroe disse al molto caro Aedo:
Troppo nel cielo sono alte le stelle
perché la strada io possa ormai vedere.
Or qui dormiamoed assai caldo il letto
a noi facciamo; ché risorto è il vento.
Dissee ambedue si giacquero tra molte
foglie caduteche ammucchiate al tronco
di vecchie quercie aveva la procella;
e parvero nel mucchioessidue tizzi
vecchiriposti con un po' di fuoco
sotto la grigia cenere infeconda.
E sopra loro alta stormìa la selva.
Ed ecco il cuore dell'Eroe leoni
udì ruggire. Avean dormito il giorno
certoe l'eccelsa casa era vicina.
Invero intese anche la voce arguta
in lontananzadella deachesola
non prendea sonno e ancor tessea notturna.
Né prendea sonno egliOdisseoma spesso
si volgea su le foglie stridule aspre.
XVII
L'AMORE
E con la luce rosea dell'aurora
non udì più ruggito di leoni
che stanchi alfine di vegliarcol muso
dormian disteso su le lunghe zampe.
Dormiva anch'ellaallo smorir dell'alba
pallida e scinta sopra il noto letto.
E il vecchio Eroe parlava al vecchio Aedo:
Prenda ciascuno una sua via: ch'è meglio.
Ma diamo un segno; con la cetraAedo
tuche ritrova pur da lungi il cuore.
Ma s'io ritrovi ciò che il cuor mi vuole
ti getto allora un alalà di guerra
quale gettavo nella mischia orrenda
eroe di bronzo sopra i morti ignudi
io; che il cuore lo intenda anche da lungi.
Dissee taceva dei leoni uditi
nell'alta nottee della dea canora.
E prese ognuno la sua via diversa
per macchie e boschie monti e vallie nulla
udì l'Eroese non ruggir le quercie
a qualche rara rafficae cantare
lontan lontano eternamente il mare.
E non vide la casané i leoni
dormir col muso su le lunghe zampe
né la sua dea. Ma declinava il sole
e tutte già s'ombravano le strade.
E mise allora un alalà di guerra
per ritrovare il vecchio Aedoalmeno;
e porse attento ad ogni aura l'orecchio
se udisse almeno della cetra il canto;
e sìl'udì; traendo a leil'udiva
sempre più mestasempre più soave
cantar l'amore che dormia nel cuore
e che destato solo allor ti muore.
La udì più pressoe non la videe vide
nel folto mucchio delle foglie secche
morto l'Aedo; e forse oramovendo
pel cammino invisibiletra i pioppi
e i salici che gettano il lor frutto
toccava ancora con le morte dita
l'eburnea cetra: così mesto il canto
n'erae così lontano e così vano.
Ma era in altoa un ramo della quercia
la cetra argutaove l'avea sospesa
Femiomorendoa che l'Eroe chiamasse
brillando al sole o tintinnando al vento:
al vento che scotea gli alberial vento
che portava il singulto ermo del mare.
E l'Eroe piansee s'avviò notturno
alla sua naveabbandonando morto
il dolce Aedosopra cui moveva
le foglie secche e l'aurea cetra il vento.
XVIII
L'ISOLA DELLE CAPRE
Indi più lungi navigòpiù triste
E corse i flutti nove di la nave
or col remeggio or con la bianca vela.
E giunse alfine all'isola selvaggia
ch'è senza genti e capre sole alleva.
E qui vinti da sonno e da stanchezza
dormian sul lido a cui batteva l'onda.
Ma con la luce rosea dell'aurora
vide Odisseo la terra dei Ciclopi
non presso o lungie gli sovvenne il vanto
ch'ei riportò con la sua forza e il senno
del mangiatore d'uomini gigante.
Ed oblioso egli cercò l'Aedo
per dire a lui: Terpiade Femioil sogno
dolce e dimenticato io lo risogno:
era la gloria... Ma il vocale Aedo
dormia sotto le stridule aspre foglie
e la sua tetra là cantava al vento
il dolce amore addormentato in cuore
che appena desto solo allor ti muore.
E l'Eroe disse ai vecchi remiganti:
Compagniudite. Qui non son che capre;
e qui potremmo d'infinita carne
empircifino a che sparisca il sole.
Ma no: le voglio prendere al pastore
pecore e capre; ch'ècosìben meglio.
È làpari a un cocuzzolo silvestro
quel mio pastore. Io l'accecai. Ma il grande
cuor non m'è pago. Egli implorò dal padre
ch'io perdessi al ritorno i miei compagni
e mal tornassie in nave d'altrie tardi.
Or sappia che ho compagni e che ritorno
sopra nave ben mia dal mio ritorno.
Andiamo: a mare troveremo un antro
tutto copertoio ben lo sodi lauro.
Avessi ancora il mio divino Aedo!
Vorrei che il canto d'Odisseo là dentro
cantassee quegli nel tornare all'antro
sostasse cieco ad ascoltar quel canto
coi greggi attornoil mento sopra il pino.
E io sedessi all'ombra suanel lido!
Dissee ai compagni longiremi ingiunse
di salir essi e sciogliere gli ormeggi.
Salirono essie in fila alle scalmiere
facean coi remi biancheggiare il flutto.
E giunti pressovidero sul mare
in una puntal'antroaltocoperto
di molto lauroe v'era intorno il chiuso
di rozzi blocchie lunghi pini e quercie
altochiomanti. E il vecchio Eroe parlava:
Là prendiam terrach'egli dal remeggio
non ci avvisti; ch'a gli orbi occhio è l'orecchio;
e non ci avventi un massocome quello
che troncò in cima di quel picco nero
e ci scagliò. Rimbombò l'onda al colpo.
Ed accennava un alto montetronco
del capoche sorgeva solitario.
XIX
IL CICLOPE
Ecco: ai compagni disse di restare
presso la nave e di guardar la nave.
Ed egli all'antro già moveasoletto
per lui vedere non vedutoquando
parasse i greggi sufolando al monte.
Ora all'Eroe parlava Iro il pitocco:
Ben verrei reco per veder quell'uomo
che tanto mangiae portar viase posso
di sui canniccigià scolati i caci
e qualche agnello dai gremiti stabbi.
Poi ch'Iro ha fame. E s'ei dentro ci fosse
il gran Ciclopesai ch'Iro è veloce
ben che non forte; è come Iri del cielo
che va sul vento con il piè di vento.
L'Eroe sorrisee insieme i due movendo
il pitocco e l'Eroegiunsero all'antro.
Dentro e' non era. Egli pasceva al monte
i pingui greggi. E i due meravigliando
vedean graticci pieni di formaggi
e gremiti d'agnelli e di capretti
gli stabbie separati eranoognuni
ne' loroi primaticcii mezzanelli
e i serotini. E d'uno dei recinti
ecco che uscìcon alla poppa il bimbo
un'altocinta femminache disse:
Ospitigioia sia con voi. Chi siete?
donde venuti? a cambiar quiqual merce?
Ma l'uomo è fuoricon la greggiaal monte;
tra poco tornaché già brucia il sole.
Ma pur mangiatese il tardar v'è noia.
Sorrise ad Iro il vecchio Eroe: poi disse:
Ospite donnae pur con te sia gioia.
Ma dunque l'uomo a venerare apprese
gli dei beatied ora sa la legge
benché tuttora abiti le spelonche
come i suoi pariper lo scabro monte?
E l'altocinta femmina rispose:
Ospiteognuno alla sua casa è legge
e della moglie e de' suoi nati è re.
Ma noi non deprediamo altri: ben altri
ch'errano in vano su le nere navi
come ladronia noi pecore o capre
hanno predate. Altrui portando il male
rischian essi la vita. Ma voi siete
vecchie cercate un dono quinon prede.
Verso Iro il vecchio anche ammiccò: poi disse:
Ospite donnaben di lui conosco
quale sia l'ospitale ultimo dono.
Ed ecco un grande tremulo belato
s'udì veniree un suono di zampogna
e sufolare a pecore sbandate:
e ne' lor chiusi si levò più forte
il vagir degli agnelli e dei capretti.
Ch'egli venivae con fragore immenso
depose un grande carico di selva
fuori dell'antro: e ne rintronò l'antro.
E Iro in fondo s'appiattò tremando.
XX
LA GLORIA
E l'uomo entròma l'altocinta donna
gli venne incontroe lo seguiano i figli
moltie le molte pecore e le capre
l'una all'altra addossate erano impaccio
per arrivare ai piccoli. E infinito
era il belatoe l'alte gridae il fischio.
Ma in breve tacque il gemitoe ciascuno
suggea scodinzolando la sua poppa.
E l'uomo vide il vecchio Eroe che in cuore
meravigliava ch'egli fosse un uomo;
e gli parlò con le parole alate:
Ospitemangia. Assai per te ne abbiamo.
Ed al pastore il vecchio Eroe rispose:
Ospitedimmi. Io venni di lontano
molto lontano; eppur io giàdal canto
d'erranti aediconoscea quest'antro.
Io sapea d'un enorme uomo gigante
che vivea tra infinite greggie bianche
selvaggiamentequi su i montisolo
come un gran picco; con un occhio tondo...
Ed il pastore al vecchio Eroe rispose:
Venni di dentro terraioda molt'anni;
e nulla seppi d'uomini giganti.
E l'Eroe riprendevaed i fanciulli
gli erano attornodel pastoreattenti:
che aveva solo un occhio tondoin fronte
come uno scudo bronzeocome il sole
accesovuoto. Verga un pino gli era
e gli era il sommo d'un gran montepietra
da fiondae in mare li scagliavae tutto
bombiva il mare al loro piombar giù...
Ed il pastoretra i suoi pastorelli
pensavae disse all'altocinta moglie:
Non forse è questo che dicea tuo padre?
Che un savio c'erauomo assai buono e grande
per quiTelemo Eurymideche vecchio
dicea che in mare piovea pietreun tempo
sìda quel monteche tra gli altri monti
era più grande; e che s'udian rimbombi
nell'alta nottee che appariva un occhio
nella sua cimaun tondo occhio di fuoco...
Ed al pastore chiese il moltaccorto:
E l'occhio a lui chi trivellò notturno?
Ed il pastore ad Odisseo rispose:
Al monte? l'occhio? trivellò? Nessuno.
Ma nulla io vidie niente udii. Per nave
ci vien talvoltae non altrondeil male.
Disse: e dal fondo Iro avanzòche disse:
Tu non hai che fanciulli per aiuto.
Prendi meben sì vecchioma nessuno
veloce ha il piede più di mese debbo
cercar l'agnello o rintracciare il becco.
Per chi non ebbe un tetto maipastore
quest'antro è buono. Io ti sarò garzone.
XXI
LE SIRENE
Indi più lungi navigòpiù triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
scuro verso la terra de' Ciclopi
e vide dal cocuzzolo selvaggio
del monteche in disparte era degli altri
levarsi su nel roseo cielo un fumo
tenueleggieroquale esce su l'alba
dal fuoco che al pastore arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedeanosìnel violaceo mare
lunghe tremare l'ombre dei Ciclopi
fermi sul lido come ispidi monti.
E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo
squittiva dentrocome cane in sogno:
Il mio sogno non era altro che sogno;
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.
E gli sovvenne delle due Sirene.
C'era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
Ferma la nave! Odi le due Sirene
ch'hanno la voce come è dolce il miele;
ché niuno passa su la nave nera
che non si fermi ad ascoltarci appena
e non ci ascoltache non goda al canto
né se ne va senza saper più tanto:
ché noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!
Gli sovvenivae ripensò che Circe
gl'invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga
dalle molt'erbein mezzo alle sue belve.
Ma l'uomo erettoch'ha il pensier dal cielo
dovea fermarsiudireanche se l'ossa
aveano poi da biancheggiar nel prato
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.
Passare ei non doveva oltrese anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
Uominiandiamo a ciò che solo è bene:
a udire il canto delle due Sirene.
lo voglio udirloeretto su la nave
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene.
Dissee ne punse ai remiganti il cuore
che seduti coi remi battean l'acqua
saper volendo ciò che avviene in terra:
se avea fruttato la sassosa vigna
se la vacca avea fattose il vicino
aveva d'orzo più raccolto o meno
e che facea la fida moglie allora
se andava al fontese filava in casa.
XXII
IN CAMMINO
Ed ecco giunse all'isola dei loti.
E sedean sulla riva uomini e donne
sazi di lotoin dolce oblìo composti.
E sorseroai canuti remiganti
offrendo pii la floreal vivanda.
O così vecchi erranti per il mare
mangiate il miele dell'oblìo ch'è tempo!
Passò la navee lento per il cielo
il sonnolento lor grido vanì.
E quindi venne all'isola dei sassi.
E su le rupi stavano i giganti
come in vedettae su la nave urlando
piovean pietre da carico con alto
fracasso. A stento si salvò la nave.
E quindi giunse all'isola dei morti.
E giacean lungo il fiume uomini e donne
sazi di vitasotto i salci e i pioppi.
Volsero il capo; e videro quei vecchi;
e alcuno il figlio ravvisò fra loro
più di lui vecchioe per pietà di loro
gemean: Venite a riposare: è tempo!
Passò la naveed esile sul mare
il loro morto mormorio vanì.
E di lì venne all'isola del sole.
E pascean per i prati le giovenche
candide e nerecon le dee custodi.
Essi udiano mugliare nella luce
dorata. A stento lontanò la nave.
E di lì giunse all'isola del vento.
E sopra il muro d'infrangibil bronzo
vide i sei figli e le sei figlie a guardia.
E videro la naveessie nel bianco
suo timoniereparso in prima un cigno
o una cicognauno Odisseo conobbe
che così vecchio anco sfidava i venti;
e con un solo sibilo sul vecchio
scesero insieme di sul liscio masso.
Ed ora l'ira li portòdei venti
per giorni e nottie li sospinse verso
le rupi errantima così veloce
che a mezzo un cozzo delle rupi dure
come uno strale scivolò la nave.
E allora l'aspra raffica discorde
portava lei contro Cariddi e Scilla.
E già l'Eroe sentì Scilla abbaiare
come inquïeto cucciolo alla luna
sentì Cariddi brontolar bollendo
come il lebete ad una molta fiamma;
e le dodici branche avventò Scilla
ed assorbì la salsa acqua Cariddi:
invano. Era passata oltre la nave.
E tornarono i venti alla lor casa
cinta di bronzomormorando cupi
tra loroin rissa. E venne un'alta calma
senza il più lieve soffioe sopra il mare
un dio forse erache addormentò l'onde.
XXIII
IL VERO
Ed il prato fiorito era nel mare
nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene
ancoraperché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forzacorrente sotto il mare calmo
spingea la nave verso le Sirene
e disse agli altri d'inalzare i remi:
La nave corre ora da sécompagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi uditeil braccio su lo scalmo.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il divino Odisseo vide alla punta
dell'isola fiorita le Sirene
stese tra i fioricon il capo eretto
su gli ozïosi cubitiguardando
il mare calmo avanti séguardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l'isola dei fiori.
Dormite? L'alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sireneio sono ancora quel mortale
che v'ascoltòma non poté sostare.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene
le ciglia alzate su le due pupille
avanti sé miravanonel sole
fisseod in luinella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare
alta e sicura egli inalzò la voce.
Son io! Son ioche torno per sapere!
Ché molto io vidicome voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il Vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uominie pelli raggrinzate intorno
presso le due Sireneimmobilmente
stese sul lidosimili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Mavoi dueparlate!
Ma dite un veroun solo a metra il tutto
prima ch'io muoiaa ciò ch'io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s'ergean su la nave alte le fronti
con gli occhi fissidelle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave.
XXIV
CALYPSO
E il mare azzurro che l'amòpiù oltre
spinse Odisseoper nove giorni e notti
e lo sospinse all'isola lontana
alla speloncacui fioriva all'orlo
carica d'uve la pampinea vite.
E fosca intorno le crescea la selva
d'ontani e d'odoriferi cipressi;
e falchi e gufi e garrule cornacchie
v'aveano il nido. E non dei vivi alcuno
né dio né uomovi poneva il piede.
Or tra le foglie della selva i falchi
battean le rumorose alee dai buchi
soffiavanodei vecchi alberii gufi
e dai rami le garrule cornacchie
garrian di cosa che avvenia nel mare.
Ed ella che tessea dentro cantando
presso la vampa d'olezzante cedro
stupìfrastuono udendo nella selva
e in cuore disse: Ahimèch'udii la voce
delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!
E tra le dense foglie aliano i falchi.
Non forse hanno veduto a fior dell'onda
un qualche dioche come un grande smergo
viene sui gorghi sterili del mare?
O muove già senz'orma come il vento
sui prati molli di viola e d'appio?
Ma mi sia lungi dall'orecchio il detto!
In odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice. E ben lo soda quando
l'uomo che amavorimandai sul mare
al suo dolore. O che vedeteo gufi
dagli occhi tondie garrule cornacchie?
Ed ecco usciva con la spola in mano
d'oroe guardò. Giaceva in terrafuori
del mareal piè della speloncaun uomo
sommosso ancor dall'ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell'antro
tremando un poco; e sopra l'uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell'uve.
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria
all'isola deserta che frondeggia
nell'ombelico dell'eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora
chi l'immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l'uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
steriledove non l'udia nessuno:
- Non esser mai! non esser mai! più nulla
ma meno morteche non esser più! -
IL POETA DEGLI ILOTI
I
IL GIORNO
Figlio di Diomolto giocondo in cuore
prendesti terra in Aulide pietrosa!
Tornavi tu dal suolo degli Abanti
ricco di vignedalla popolata
di belle donne Calcide; né prima
d'allora avevi traversato il mare.
Ma il largo mare traversasti allora;
ché il repiù re degli uomini mortali
era là mortoed una gara indetta
e di lotte e di corse erae di canto.
E tu nel canto ogni cantor vincesti
anche il vecchio di Chio cieco e divino
col tuo ben congegnato inno di guerra.
Ed ora sceso dalla nera nave
movevi ad Ascraassai giocondo in cuore;
ché per la via ti camminava a paro
un curvo schiavoche reggea sul dorso
il premio illustre: un tripode di bronzo.
Ché l'orecchiuto tripode di bronzo
gravava in prima al buon Ascreo le spalle;
e prima l'unae l'altra poi; ché grave
eradi bronzo; e poi l'aveaper l'anse
sospeso al ramo ch'era suod'alloro;
e lo portava: ma venuto a un grande
platanodonde chiara acqua sgorgava
sostògià stanco. Ed era quello il fonte
dove il segno gli Achei viderod'otto
passeri implumie nove con la madre.
E di passeri il platano sul fonte
garriva ancorae il buon Ascreo li udiva
pensando in cuore un nuovo inno di guerra.
E riprendeva già la viacol caro
tripodein dossoche brillava al sole
quando sorvenne un viator che bevve;
e seguitò. Ma poco dopo «O vecchio.»
disse«ch'io porti il tuo laveggio: è peso.»
E tolse prima il tripodeche l'altro
gli rispondesse: dopogli rispose:
«Grave eraè grave. Ed anche tu sei vecchio.»
«Ma sono schiavo» gli rispose il vecchio:
«schiavo; e dal monte Citerone io venni
menando al maread una curva nave
due bei vitellinati schiavi anch'essi.
Torno al padrone. Ma tu doveo babbo?»
«Ad Ascra: ad Ascramisero villaggio
tristo al freddoaspro al caldoe non mai buono.»
E non addimandato altro gli disse:
«Venni per maread Aulide: ho passato
l'Euripo. Indetta a Calcide una gara
e di lotte e di corse erae di canto.
Vinsi codesto tripode di bronzo
cantando gesta degli eroi...» «Sei dunque
rapsodo errantee sai le false cose
far come verema non dir le vere.»
Non rispondeva il vecchio Ascreoché tutto
era in pensar le mille navi in porto
mentre sul curvo lido la procella
scotea le chiome degli Achei chiomanti.
E il sole era già caldoe la campagna
fervea di mugli. Ché la pioggia a lungo
nei dì passati avea temprato il suolo
e i contadini aravano le salde
ed era tempo d'affidar le fave
ai solchi nerie la lenticchia ai rossi.
E nudo un uomo traea giù da un carro
presso la stradacon un suo ronciglio
il pingue concio. E il buon Ascreo ne torse
il volto offeso. Ma lo schiavo curvo
sotto il ben fatto tripode di bronzo
disse gioia a quel nudo uomoe quel concio
lodòmaturo. E brontolò stradando:
«Ben fachi fa. Sol chi non fafa male.»
Ed era presso mezzodìné casa
ora apparivaa cui cercare un dono
piccolo e caro. Ché tra rupi e cespi
di stipe in fiore essi ripìanomuti.
Taceva anche la lodola dal ciuffo;
anche il cantore. Egli tacea per l'astio
ch'altri tacesse. Ma lo schiavo andando
volgea lo sguardo alle inamene roccie.
E disse alfine: «Ecco!» E mostrò la roccia
verdein un puntoper nascente ontano.
«C'è tuttoal mondoma nascosto è tutto.
Primacercaree poi convien raspare.»
Egli depose il tripode di bronzo
raspòrinvenne un sottil filo d'acqua.
Poi dal laveggio che brillava al sole
un pane trasseche v'avea deposto
e lo partì col buon Ascreodicendo:
«So ch'è più grande la metà che il tutto.»
Finitoprima che la fameil cibo
mossero ancora per la via rupestre
che già scendeva. Ed ecco che lo schiavo
guardando attorno vide una bolgetta
in un cespuglio. E presalavi scòrse
splendere dentro due talenti d'oro.
E guardò giù per il sentieroe scòrse
lontan lontano cavalcare un uomo.
E disse: «Padreper un po' sul dorso
reggimi il grave tripode di bronzo
ché n'avrei briga nel veloce corso.»
E corsee giunse al cavaliercui rese
poi ch'egli suo glielo giuròquell'oro.
Poitrafelatoil buon Ascreo sorvenne.
«Facile t'era aver per te quell'oro!»
disse allo schiavo. E mormorò lo schiavo:
«Facilesì: c'è poca strada al male.
Il maleo padreè nostro casigliano.»
Così parlando andavanoe la strada
era già pianae si vedean tuguri
di contadini ed ammuffiti borghi.
E lor giungea da tempo uno schiamazzo
di vocicome un abbaiar di cani
lontani. E sempre lor venìa più presso.
Erano gente che in un trivio aperto
rissavano con voci aspre di cani.
E alcun di loro già brandìa la zappa
poi che l'irosa voce era già rauca;
quando lo schiavo nel buon punto accorse
deposto in terra il tripode di bronzo;
e tenne l'uno e sgridò l'altroe disse:
«Pace! È la pace che ralleva i bimbi.
Sono i pesci dell'acquee son le fiere
dei boschie sono gli avvoltoi dell'aria
ch'hanno per legge di mangiar l'un l'altro.
Gli uomininoché la lor legge è il bene.»
E quelli ognun tornava all'intermessa
operain pace. E i bovi sotto il giogo
rivedeano il lor uomo con un muglio
compiendo il solco al suon della sua voce
ch'era arrochita: e le ricurve zappe
sfacean le zolle seppellendo il seme.
E lo schiavo riprese sopra il dorso
l'aspro di segni tripode di bronzo
e riprendendo la sua via diceva
ad un rubesto giovane: «Lavora
o gran fanciullose la terra e il cielo
t'aminoamando essi chi lor somiglia!
Ché la nube carreggiacon un cupo
brontolìol'acqua; e da lontanoansando
il vento viene; e infaticato il sole
torna ogni giorno. Ma la terra è tarda
madre che fece tanti figlie tutti
li ebbe alla poppa. O dàlle ora una mano!»
E lo schiavo stradò col suo cantore
a paro a paro. E già scendea la sera
e velava una dolce ombra le strade.
Né più borghi muffiti erano intorno
né casolari. Erano intorno macchie
folte di lauro che odorava al cielo.
E videro ambedue ch'era smarrita
ormai la strada. Ed il cantore stanco
disse allo schiavo: «Mal tu m'hai condotto.»
E gli rispose il pazïente schiavo:
«In te fidavo: Ché del buon cammino
chi c'èse non il buon cantormaestro?»
II
LA NOTTE
E sul lor capo era l'opaca notte
piena di stelle. E risplendea nel cielo
l'Orsa minoreche accennò qual fosse
la vera stradané però dall'alto
la rischiaravacolaggiùnell'ombra.
E l'uomo allora e presso lui lo schiavo
sostarono nel bosco ove in un giogo
s'allargava assai piana una radura
donde era meglio preveder le fiere
se alcuna v'era che traesse al fiuto.
E poi lo schiavo conficcò nel suolo
il suo bastonee presso quello il ramo
di sacro laurodel cantoree sopra
la sua schiavina sciorinòche fosse
schermo dal lato onde veniva il freddo.
E disse: «O padrebene io so le notti
gelidee il sonno sotto la rugiada.
Ma è ben tardi perché tu l'impari.»
Ma allo schiavo il pio cantor rispose:
«Ospite carobasta ch'io ricordi.
Ero fanciullo ed imparai le notti
gelide e il sonno sotto la rugiada.
Ché da fanciullo pascolai la greggia
reggendo in mano la ricurva verga
del pecoraionon lo scettroramo
di sacro alloro chesenz'altro squillo
d'arguta cetracolma a me di canto
come alle genti di silenzioil cuore.
Mio padre ad Ascra dall'eolia Cyme
vennefuggendonon la copia e gli agi
sì la cattiva povertà; che venne
tanto l'amavasu la nave anch'ella
né più si stolse e poi restò col figlio.
E io badai le pecore sui greppi
dell'Eliconeil grande monte e bello
e le notti passai su la montagna.
E in una notte come questa... il sonno
non mi voleva. Ché splendean le stelle
tutte nel cieloe fresche del lavacro
veniano su le Pleiadi che al campo
lascian l'aratro e trovano la falce.
E insonne udivo uno stormir di selve
un correr d'acqueun mormorio di fonti.
E s'esalava un infinito odore
dai molli pratie tutto era silenzio
e tutto voce; ed era tutto un canto.
Ed ecco tutto io mi sentii dischiuso
all'universoche d'un tratto invase
l'essere mio; né così lieve un sogno
entra nell'occhio nostro benché chiuso.
E tutto allora in me trovaiche prima
fuori apparivae in me trovai quel canto
che si frangea nell'anima serena
pienanell'alta opacitàdi stelle.
E quel canto parlava della Terra
dall'ampio pettocheinfelice madre
nell'evo primo non facea che mostri
orrendi enormie li tenea nascosti
in séperché non li vedesse il Cielo.
E lei guardava coi mille occhi il Cielo
molto in sospettoché l'udia sovente
gemere e la vedea scotersi tutta
per la strettura; e venir fumo fuori
nel giornoe fiamme nella nera notte.
Al fin la Terra spinse fuor d'un tratto
la grande prole; e con un grande sbalzo
sorsero i monti dalle cento teste
e d'ogni testa usciva il fumo e il fuoco
che tolse il giorno e insanguinò la notte.
E non era che notterisonante
di stridarugghisibililatrati
e già non altro si vedeache i mostri
lambersi il fuoco con le lingue nere.
E i mostri urlando massi ardenti al Cielo
avventarono; e il Cieloarso dall'ira
spezzò le stelle e ne scagliò le scheggie
contro la Terrae in una notte d'anni
tra Cielo e Terra risonò la rissa.
Qua mille braccia si tendean nell'ombra
coi massi accesie mille urli ad un tempo
uscìan con essi; ma dall'alto gli astri
pioveano muti con un guizzo d'oro.
E il masso a volte si spezzò nell'astro.
E sfavillante un polverìo si sparse
nel nero spaziocome la corolla
d'un fior di luceche per un momento
illuminò gli attoniti giganti
e il mare immenso che ondeggiava al buio
e in terra e in aria rettili deformi
nottole enormi; e qualche viso irsuto
di scimmia intento ad esplorar da un antro.
E poi fu pace. Ed ecco uscì dall'antro
il bruto simoe nella gran maceria
dove sono i rottami anche del Cielo
frugò raspò scavòcome fa il cane
senza padroneove si spense un rogo.
E fruga ancora e raspa ancora e scava
ancora. Ma dal Cielo ora alla Terra
sorride il sole e piange pia la nube.
È pace. Pur la Terra anco ricorda
l'antica lottae gitta fuocoe trema.
E al Cielo torna l'ira anticae scaglia
folgori a lei con subito rimbombo.
È pace sìma l'infelice Terra
è sol felicequando ignara dorme;
e il Cielo azzurro sopra lei si stende
con le sue lucie vuol destarla e svuole
e l'accarezza col guizzar di qualche
stella cadenteche però non cade.
Come ora. E sol com'ora anco è felice
l'uomo infelice; s'egli dorme o guarda:
quando guarda e non vede altro che stelle
quando ascolta e non ode altro che un canto.»
Così parlavae dolce sorse un canto:
sul rumor delle foglie e delle fonti
un dolce canto pieno di querele
e di domandeun nuvolo di strilli
cadente in un singulto graveun grave
gemere che finiva in un tripudio.
E il buon Ascreo diceva: «Eccofu tolto
il sonnotutto al querulo usignolo
che così piange per la notte intiera
né sotto l'ala mai nasconde il capo;
ma solo mezzoa quella cui la sera
gemere ascolta e riascolta l'alba.
Miseri! e un solo è il lor doloree forse
l'uno non ode mai dell'altro il pianto!»
E lo schiavo diceva: «Oh! non è pianto
questo né l'altro. Ma la casereccia
rondine ha molti i figli e le faccende
e sa che l'alba è un terzo di giornata;
e dolce a quegli che operò nel giorno
viene la serae lieto suona il canto
dopo il lavoro. E l'usignol gorgheggia
tutta la notte né vuol prender sonno...
ch'egli non vuole seppellir nel sonno
avere in vano dentro sé non vuole
un solo trillo di quel suo dolce inno!»
Così parlava. E sorse aurea la luna
dalla montagnaed insegnò la strada
al buon Ascreoche mosse con lo schiavo.
A mano a mano lo accoglieva il canto
degli usignolifin che su l'aurora
gli annunzïò ch'era vicino un tetto
una garrula rondine in faccende.
E poi giunsero al monte alto e divino
a un tempio ermo tra i boschi. E il pio cantore
disse allo schiavo: «Ospite amicoè questo
il luogo dove pasturai fanciullo
il greggee dove appresi il cantoe dove
cantai la rissa tra la Terra e il Cielo.
Ma poi mi piacquenon cantare il vero
sì la menzogna che somiglia al vero.
Ora il lavoro canteròné curo
ch'io sembri ai re l'Aedo degli schiavi.»
Disse: e nel tempio solitario appese
il bello ansato tripode di bronzo.
POEMI DI ATE
I
ATE
O quale usci dalla città sonante
di colombelle Mecisteo di Gorgo
fuggendo al campi glauchi d'orzoai grandi
olmi cui già mordea qualche cicala
con la stridula sega. E tu fuggivi
figlio di Gorgodall'erbosa Messe
dove un tumultopari a fuocoardeva
sotto un bianco svolìo di colombelle.
Presto e campi di glauco orzo e canori
olmi lasciavae nella folta macchia
nido di gazzes'immergea correndo
pallido ansantee gli vuotava il cuore
la fugae gli scavava il gorgozzule
e dentro dentro gli pungea l'orecchia:
Poi che tumulto non udì né grida
più d'inseguentiegli sostò. La sete
gli ardea le veneed ei bramava ancora
tuffare in una viva acqua corrente
la mano impura di purpureo sangue.
Una rana cantava non lontana
che lo guidò. Qua quacantavaè l'acqua:
bruna acquaacqua che fiori apre di gialle
rose palustri e candide ninfee.
Ora egli udì la rauca cantatrice
della fontanaMecisteo di Gorgo
e seguì l'orma querula e si vide
a un verde stagno che fiorìa di gialle
rose palustri e candide ninfee.
Come egli giunsela canora rana
tacquee lo stagno gorgogliò d'un tonfo.
Or egli prima nello stagno immerse
le mani e a lungo stropicciò la rea
con la non rea: di tutte e due già monde
del parifece una rotonda coppa
e la soppose al pìspino. Né bevve.
L'acqua era nera come mortee rossi
come saette uscite dalla piaga
erano i giunchie lividedi tabe
le rose accanto alle ninfee di sangue.
E Mecisteo fuggì dal nero gorgo
chiazzato dalle rose ampie del sangue;
fuggì lontano. Or quando già l'ardente
foga dei piedi temperavaun tratto
sentì da tergo un calpestìo discorde:
due passiuno era forteuno non era
che dell'altro la sùbita eco breve:
onde il suo capo inorridì di punte
e il cuore gli si profondòpensando
che già non fosse il disugual cadere
di goccie rosse dentro l'acque nere
né la lontana torbida querela
di quella ranama pensando in cuore
ch'era AteAte la vecchiaAte la zoppa
che dietro le fiutate orme veniva.
Né riguardòma più veloce i passi
stesee gli orecchi inebrïò di vento.
Ma trito e secco gli venìa da tergo
sempre lo stesso calpestìo discorde
misto a uno scabro anelito; né forse
egli pensò che fosse il picchiar duro
del taglialegna in echeggiante forra
misto alla rauca ruggine del fiato:
era AteAte la zoppaAte la vecchia
che lo inseguiva con stridente lena
veloceinfaticabile. E già fuori
correa del boscosopra acute roccie;
e d'una in altra egli balzavapari
allo stambeccoe a ogni lancio udiva
l'urlo e lo sforzo d'un simile lancio
poi dietro sé picchierellare il passo
eterno con la sùbita eco breve.
Fin che giunse al burronealtoinfinito
tale che all'orlo non giungea lo stroscio
d'una fiumana che muggiva al fondo.
Allor si volse per lottar con Ate
il buono al pugno Mecisteo di Gorgo;
volsesi e scricchiolar fece le braccia
protesel'aria flagellandoe il destro
piede più dietro ritraeva... e cadde.
CaddeeprecipitandoAte vide egli
che all'orlo estremo di tra i caprifichi
mostrò le rughe della frontee rise.
II
L'ETÈRA
O qualeun'albaMyrrhine si spense
la molto caraquando ancor si spense
stanca l'insonne lampada lasciva
conscia di tutto. Ma v'infuse Evèno
ancor rugiada di perenne ulivo;
e su la via dei campi in un tempietto
chiusodi marmoappese la lucerna
che rischiarasse a Myrrhine le notti;
in vano: ch'ella alfin dormivae sola.
Ma lievemente a quel chiaroreardente
nel gran silenzio opaco della strada
volòcon lo stridìo d'una falena
l'anima d'essa: ché vagava in cerca
del corpo amatoper vederlo a cora
biancoperfettoil suo bel fior di carne
fiore che apriva tutta la corolla
tutta la nottee si chiudea su l'alba
avido ed asprosenza più profumo.
Or la falena stridula cercava
quel morto fioree batté l'ali al lume
della lucernache sapea gli amori;
ma il corpo amato ella non videchiuso
coi molti arcani balsaminell'arca.
Né volle andare al suo cammino ancora
come le aeree animecui tarda
prendere il volosimili all'incenso
il cui destino è d'olezzar vanendo.
E per l'opaca strada ecco sorvenne
un coro allegrocon le faci spente
da un giovenile florido banchetto.
E Moscho a quella lampada solinga
la teda accesee lesse nella stele:
MYRRHINE AL LUME DELLA SUA LUCERNA
DORME. È LA PRIMA VOLTA ORAE PER SEMPRE.
E disse: Amicibuona a noi la sorte!
Myrrhine dorme le sue nottie sola!
Io ben pregava Amore iddioche al fine
m'addormentasse Myrrhine nel cuore:
pregai l'Amore e m'ascoltò la Morte.
E Callia disse: Ell'era un'apee il miele
stillavama pungea col pungiglione.
E disse Agathia: Ella mesceva ai bocci
d'amor le spineai dolci fichi i funghi.
E Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari!
ellabuonacambiava oro con rame.
E stetteroebbri di vin dolceun poco
lì nel silenzio opaco della strada.
E la lucerna lor blandia sul capo
tremulail serto marcido di rose
e forse tratta da quel morto olezzo
ronzava un'invisibile falena.
Ma poi la face alla lucerna tutti
l'un dopo l'altroaccesero. Poi voci
alte destò l'auletride col flauto
doppiodi bussoe tra faville il coro
con un sonoro trepestìo si mosse.
L'animano. Rimase ancorae vide
le luci e il canto dileguar lontano.
Era sfuggita al demone che insegna
le vie muffite all'anime dei morti;
gli era sfuggita: or non sapeada sola
trovar la strada: e stette ancora ai piedi
del suo sepolcroal lume vacillante
della sua conscia lampada. E la notte
era al suo colmopiena d'auree stelle;
quando sentì venire un passoun pianto
venire acutoe riconobbe Evèno.
Ché avea perduto il dolce sonno Evèno
da molti giornied or sapea che chiuso
era nell'arcacon la morta etèra.
E singultendo disserrò la porta
del bel tempiettoe presa la lucerna
entrò. Poi destrocon l'acuta spada
tentò dell'arca il solido coperchio
e lo mossee con ambedue le mani
puntellando i ginocchil'alzò. C'era
con luinon vistaalle sue spallee il lieve
stridìo vaniva nell'anelito aspro
d'Evènoun'ombra che volea vedere
Myrrhine morta. E questa apparve; e quegli
lasciò d'un urlo ripiombare il marmo
sopra il suo sonno e l'amor suoper sempre.
E fuggìfuggì via l'animae un gallo
rosso cantò con l'aspro inno la vita:
la vita; ed ella si trovò tra i morti.
Né una a tutti era la via di morte
ma tante e tantee si perdean raggiando
nell'infinita opacità del vuoto.
Ed era ignota a lei la sua. Ma molte
ombre nell'ombra ella vedea passare
e dileguare: alcune col lor mite
demone andare per la via serene
ed altrein vanoricusar la mano
del lor destino. Ma sfuggita ell'era
da tanti giorni al demone; ed ignota
l'era la via. Dunque si volse ad una
anima dolce e vergineche andando
si rivolgeva al dolce mondo ancora;
e chiese a quella la sua via. Ma quella
l'anima puraecco che tremò tutta
come l'ombra di un nuovo esile pioppo:
«Non la so!» dissee nel pallor del Tutto
vanì. L'etèra si rivolse ad una
anima santa e flebileseduta
con tra le mani il dolce viso in pianto.
Era una madre che pensava ancora
ai dolci figli; ed anche lei rispose:
«Non la so!»; quindi nel dolor del Tutto
sparì. L'etèra errò tra i morti a lungo
miseramente come già tra i vivi;
ma ora in vano; e molto era il ribrezzo
di làper l'inquïeta anima nuda
che in faccia a tutti sorgea su nei trivi.
E alfine insonne l'anima d'Evèno
passò veloceche correva al fiume
arsa di setedell'oblìo. Né l'una
l'altra conobbe. Non l'avea mai vista.
Myrrhine corse su dal trivioe chiese
a quell'incognita anima veloce
la strada. Evèno le rispose: «Ho fretta.»
E più veloce l'anima d'Evèno
corsein orroree la seguì la trista
anima ignuda. Ma la prima sparve
in lontananzanella eterna nebbia;
e l'altraamantea un nuovo trivio incerto
sostòl'etèra. E intese là bisbigli
ma così tenuicome di pulcini
gementi nella cavità dell'uovo.
Era un bisbiglioquale già l'etèra
s'era ascoltatacon orrordal fianco
venir su piosommessamente... quando
aveadi làquel suo bel fior di carne
senza una piega i petali. Ma ora
trasse al sussurroMyrrhine l'etèra.
Cauta pestava l'erbe alte del prato
l'anima ignudae riguardava in terra
tra gl'infecondi caprifichie vide.
Vide lìtra gli asfòdeli e i narcissi
starseneinformi tra la vita e il nulla
ombre ancor più dell'ombra esilii figli
suoiche non volle. E nelle mani esangui
aveano i fiori delle ree cicute
avean dell'empia segala le spighe
per lor trastullo. E tra la morte ancora
erano e il nullapresso il limitare.
E venne a loro Myrrhine; e gl'infanti
latteirugosilei vedendoun grido
diederosmorto e gracilee gettando
i tristi fioricorsero coi guizzi
viadelle gambe e delle lunghe braccia
pendule e flosce; come nella strada
molle di pioggiaal risonar d'un passo
fuggono ranchi ranchi i piccolini
di qualche bodda: tali i figli morti
avanti ancor di nascerei cacciati
prima d'uscire a domandar pietà!
Ma la soglia di bronzo era lì presso
della gran casa. E l'atrio ululò tetro
per le vigili cagne di sotterra.
Pur vi guizzòla turba infantedentro
rabbrividendoe dietro lor la madre
nell'infinita oscurità s'immerse.
III
LA MADRE
O quale Glaucoebbro d'oblìopercosse
la santa madre. E non poté la madre
che pur volevasostener nel cuore
quella percossa al volto umile e mesto;
ché da tanti dolori liso il cuore
eccosi ruppe; e ne dové morire.
E subito il buon demone sorvenne
e più veloce d'un pensier di madre
ultimola soave anima prese
la sollevòla portò via lontano
e due tre volte la tuffò nel Lete.
E le dicea: «Dimentica per sempre
anima buona; ché sofferto hai troppo!»
E pose lei nel sommo della terra
dove è più lucepiù beltà; più Dio:
nel calmo Elisiodonde mai non torna
l'anima al bassoa dolorar la vita.
Ma nel profondo della terra il figlio
precipitònel baratro sotterra
tanto sotterra alla sua tombaquanto
erano su la tomba alte le stelle.
E là funella oscuritàtravolto
dalla massa d'eterna acquache sciacqua
pendula in mezzo all'infinito abisso;
chementre oscilla il globo della terra
là dentro flottae urta le pareti
solidee con cupo impeto rimbomba.
E l'anima di Glauco era travolta
nell'acqua eternae or lanciata contro
le roccie liscieor tratta dal risucchio
giù. Né un raggio di lucema una romba
senza pensieroe senza tempo il tempo.
Quandoun flutto sboccò con un singulto
in un crepaccioe Glauco sgorgò dentro
l'antro sonantee si trovò su l'onda
d'un nero fiume che correa sotterra
rapacemente. Ed era tutto un pianto
un pianto occultoil pianto dopo morte
oh! così vanole cui solitarie
lacrime lecca il labile lombrico.
E il fiume cieco del dolor sepolto
portò Glauco vicino alla palude
Acherusìadeove tra terra e acqua
errano l'ombre a cui la morte insegna
e che verranno ad altra vita ancora
quando il destino li rivoglia in terra.
E vide le aspettantti anime Glauco
sul denso limoa cui l'urtava il flutto
e gridò Glaucoaltoe chiamò la madre:
«Madre che offesi... madre che percossi...
madre che feci piangere... Ma vengo
sul fiume eternoo mammaa tedel pianto!
O mamma che... feci morire! E morto
ti sono anch'io; nato da te! più morto!
Sì: t'ho percossa. Ma non sai con quanta
forza alle scabre roccie mi percuota
l'acqua laggiùnel baratro; e che buio
laggiù! che grida! Oh! mai non fossi nato!
Mamma... pietà! perdonami! Se lasci
ch'io salga; e basta che tu vogliaio salgo;
oh! sarò buono! buonoora per sempre!
non ti batterò più!... Mammagià l'onda
mi porta via... perdona dunque! Io torno
laggiù... fa presto. Un tempo eri più buona
o mamma!... O madreti mutò la morte!»
Così pregavail figlio. Eccoe l'ondata
dal molle limo lo staccòlo volle
con sélo steselo portò nel fiume
del pianto vano. E singultendoil fiume
lo versò nell'abisso; e nell'abisso
se lo riprese il vortice segreto.
E l'anima dell'empio era travolta
dall'acqua eternae tratta dal risucchio
giùpoinel buioqua e là percossa.
Ed ella sunel sommo della terra
dove è più lucepiù beltàpiù Dio
sedea serena; e con la guancia offesa
sopra la palmasi facea cullare
dal grande mare d'eteredal breve
lassùmollissimooscillìo del mondo.
Eccolevò dalla tranquilla palma
la guancia offesae riguardava intorno
inorecchita. E il buon demone accorse
e le diceva: «Vieni al dolce Lete
a bere ancora: non assai bevesti!»
Ed ella bevve. Ma via via dagli occhi
le usciva il pianto e le cadea nell'onda.
E le premeva il demonesoave-
mentela nucae le diceva: «Ancora!
Ancora! Bevi! Non assai bevesti!»
E docile beveva ellae nel Lete
le cadea sempre più dirotto il pianto.
Oh! non beveva che l'oblìo del male
la santa madree si levò piangendo
e disse: «Io sento che il mio figlio piange.
Portami a lui!» Né il demone s'oppose;
ché cuor di madre è d'ogni Dio più forte.
E con lei sceseed ella andò sotterra
sempre piangendo e giunse alla palude
Acherusìade. Ed ella errò tra l'alga
deformeed ella s'aggirò tra il fango
sempre accorrendo ad ogni sbocco appena
sentia mugghiare una marea sotterra
e il pianto vano venir sudei morti
sui neri fiumidi su i rossi fiumi.
Ed un fluttolaggiùcon un singulto
gittò Glauco in un antroe poi su l'onde
del nero fiume che correa sotterra
del pianto occultopianto dopo morte;
e lo portò vicino alla palude:
e gridò Glaucoaltoe chiamò la madre:
«Madreeri buonae ti mutò la morte!
mammaio ti feci piangere; mammina
io sì ti feciio figlio tuomorire...»
Ma ellaprima anche di luigridava
dal triste limotra il fragor dei flutti:
«Mia creaturanon lo feci apposta
ioa morir così d'un subitoio
ioa non dirti che non era nulla
ch'era per gioco... Vieni su: perdona!»
E Glauco ascese. E poi la madre e il figlio
vennero ancor dalla palude in terra
l'una a soffriree l'altro a far soffrire.
SILENO
- Figlio di Panfiglio del dio silvestre
che nei canneti sibila e frascheggia
lànell'Asopoe frange a questa rupe
il lungo soffio della sua zampogna;
tornar nell'ombra io volli a teSileno
ora che tace la diurna rissa
del maglio e della rocciaor che non odo
più lime invidepiù trapani ingordi;
or che gli schiavi qua e là sdraiati
sognano fiumi barbari; e la luna
prendendo il monteil monte di Marpessa
piove un pallore in cui tremola il sonno.
Sono un fanciullosono anch'io di Paro;
Scopas il nome; palestrita: ed oggi
coronato di smilace e di pioppo
correvo a gara con un mio compagno:
e giunsi qui dove gl'ignudi schiavi
Paflàgoni con cupi ululi in alto
tender vedevo intorno ad una rupe
le irsute braccia ed abbassar di schianto.
Eccoil compagno rimandai soletto
al grammatista e al garrulo flagello;
ma io rimasi ad ammirar gl'ignudi
schiavi intorno la rupe alta ululanti.
Su sfavillìo di cunei l'arguto
maglio cadeva; e io seguia con gli occhi
l'opera grande della breve bietta
ch'entra sottile come la parola
poi sforza il massocome quella il cuore;
quandocon uno scroscio ultimoil blocco
s'aprìmostrandocome in ossea noce
bianco garigliote di Pan bicorne
figlioo Sileno: e tu ridevi al sole
riscintillante sopra l'ulivete;
e tu puntavi con l'orecchie aguzze
l'aereo mareggiar delle cicale.
Ma che mai cela questa rupe? Io venni
a domandarti perché mai sorridi
solocostìcol tuo marmoreo volto
e come tendi le puntute orecchie
al sibilìo de' fragili canneti.
Od altro ascolti e vedi altroSileno?
Scopasalunno dell'alpestre Paro
così parlava al candido Sileno
figlio improvviso della roccianato
sotto martelli immemori di schiavi.
Il giovinetto gli sedea di contro
sopra un macignocon al vento i bruni
riccioliin mezzo a molti blocchi sparsi
come il pastore tra l'inerte gregge.
E gli rispose il candido Sileno
o parvea un tratto con un volger d'occhi
simile a lampo che vaporò bianco
e scavò col fugace alito il monte.
Ed a quel lampo il giovinetto vide
ciò che non più gli tramontò dagli occhi.
Videsotto la scorza aspra del monte
vide il tuo regnoo bevitor di gioia
vecchio Sileno: una palestra: in essa
sorprese il breve anelito del lampo
in un bianco lor moto i palestriti:
l'ombra seguace irrigidì quel moto
per sempre; e stette nelle braccia tese
degli oculati pugili già pronto
lo scatto di fischiante arco di tasso
ed alla mano al lanciator ricurvo
restò sospeso impazïente il disco
in cui pulsava il vortice di ruota
ed alla pianta alta de' corridori
l'impeto rapido oscillò del vento:
gli efebi intenti a contemplar la gara
ressero sul perfetto omero l'asta.
In tanto a luminosi propilei
con sul capo le braccia arrotondate
vedeva lente vergini salire:
la pompa che albeggiò per un momento
eternamente camminò nell'ombra.
Videsotto la scorza aspra del monte
emersa dalle grandi acque Afrodite
vergineal breve anelito del lampo
che la scoprivacon le pure braccia
velar le sacre fonti della vita:
l'ombra seguace conservò per sempre
la dolce vita ch'esita nascendo.
E vide anche la morteanche il dolore:
vide fanciulli e vergini cadere
sotto gli strali di adirati numi
e tutti gli occhi volgere agl'ingiusti
sibili: tutti: ma non già la madre:
la madreal cielo; e proteggea di tutta
sé la più spaurita ultima figlia.
In tanto le Nereidi dal mare
volsero il collocon la nivea spinta
del piede su le nuove onde sospesa;
mentre al bosco fuggivano le ninfe
inseguite da satiri correnti
con lor solidi zoccoli di becco;
e un baccanale dileguò sul monte.
Il giovinetto udì strepere trombe
gemere concheed ascoltò soavi
tra l'immensa manìa bronzosonante
squillare i doppi flauti di loto.
Ed ecco il monte ritornò com'era
tacito immotose non se nel fosco
gomito d'una forra anche appariva
l'ultimo bianco di lucenti groppe
di centauri precipitie sonava
un quadruplice tonfo di galoppo
che poi vanì. Ma quando tacque il tutto
oh! come sotto il velo di grandi acque
s'udiva ancora eco di cembalieco
di timpanieco di piovosi sistri;
ed euhoè ed euhoè gridare
come in un sognocome nel gran sogno
di quelle rupi candide di marmo
dormenti nella sacra ombra notturna.
E con quel grido si mescea nell'eco
il lungo soffio della tua zampogna
o Pan silvano; e percotea la fronte
del sorridente bevitor di gioia
e del fanciullo che sedea tra i blocchi
quale un pastore tra l'inerte gregge.
POEMI DI PSYCHE
I
PSYCHE
O Psychetenue più del tenue fumo
ch'esce alla casache se più non esce
la gente dice che la casa è vuota;
più lieve della lieve ombra che il fumo
disegna in terra nel vanire in cielo:
sei prigioniera nella bella casa
d'argillao Psychee vi sfaccendi dentro
pur lieve sì che non se n'ode un suono;
ma pur vi seinella ben fatta casa
ché se n'alza il celeste alito al cielo.
E vi sfaccendi dentro e vi sospiri
sempre solettaché non hai compagne
altre che voci di cui tu sei l'eco;
ignude voci che con un sussulto
sorgere ammiri su da ted'un tratto;
voci segrete a cui tu servio Psyche.
Intorno alla tua casao prigioniera
pasce le greggi un Essere selvaggio
bicorneirsuto; e sui due piè di capro
sempre impennatocome a mezzo un salto.
E tu ne temich'egli là minaccia
impazïentee sempre ulula e corre;
e spesso guazza nel profondo fiume
come la pioggiae spesso crolla il bosco
al par del vento; e non è mai l'istante
che tu non l'oda o non lo vedao Psyche
Pan multiforme. Eppur talvolta ei soffia
dolce così nelle palustri canne
che tu l'ascoltio Psychecon un pianto
sìma che è dolceperché fu già pianto
e perse il tristo nel passar dagli occhi
la prima volta. E tu ripensi a quando
vergine fosti ad un'ignota belva
data per mogliecrudel mostro ignoto.
E sempre al buio tu con lui giacesti
rabbrividendo docileed alfine
vigile nel suo sonno alto di fiera
accesa la tua piccola lucerna
guardasti; e quella belva era l'Amore.
E lo sapesti solo allor che sparve
l'Amore alato. E ne sospiri e l'ami.
E nella casa di ben fatta argilla
dove sei schiava delle voci ignude
sempre l'aspettiche ritornie dorma
con te. Tu piangiquando Panla notte
fa dolcemente sufolar le canne;
piangi d'amoreo solitaria Psyche
nella tua casadove più non tieni
postoche l'ombrae non fai più rumore
che l'alito; e le voci odi che fanno
all'improvviso a te cader dal ciglio
la stilla che non ti volea cadere.
Però che sono e sùbite e severe
le più; ma più di tutte una che sempre
contende e gridaad ogni tuo sospiro
verso l'alata libertà: «Non devi!»
Quella non t'amacredi tu; ma un'altra
èsìche t'amae ti favella a parte
e ti consolae teco piangee parla
così sommessa che tu credi a volte
che sia meschina prigioniera anch'ella.
E tu devid'un mucchio alto di semi
far tanti mucchie sceverare i grani
d'orzoi chicchi di migliole rotonde
vecciei bislunghi pippoli di rena.
E come fine polvere di ferro
sparsa per tutto il mucchio è la semenza
dei papaveri. E tuPsychetu gemi
trepidainerte; e poi con le tue dita
d'aria ti proviscegli a lungo i semi
del papavero immemoree in un giorno
tanti ne cogliquanti appena udresti
cantare nella secca urna d'un fiore.
E piangied ecco vengono le figlie
dell'alma Terrafrugole e succinte
dalla pineta dove a Pan selvaggio
frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.
Non so chi disse alle operaie nere
di Pan la cosa. Ma si fa d'un tratto
un brulichìo per l'odorata selva;
e sgorgano esse a frotte dai minuti
lor collicellimentre Pan nell'ombra
s'addorme al canto delle sue cicale.
E salgono alla casaonda su onda
fila incessante di formicheed opre
vengono a te; ma prima i grani d'orzo
pesie i bislunghi pippoli di vena
portanodue di loro uno di quelli;
fanno le veccie di tra il biondo miglio
poi fanno il miglio minimopoi vanno.
E resta a te la polvere di semi
di cui ciascuno dal suo nulla esprima
un lungo stelo e il molle fior del sonno.
E il molle sonno tu lo chiamio Psyche
dacché di quelle voci unala voce
che non t'ama e ti sgrida asprati disse:
«Vil fanticellaprendi questa brocca
e va per acqua al nero fonte; al fonte
di cui sgorga l'oscura ondasotterra
al fiume morto. Esci per pocoe torna.»
E tuo mal gradoo schiavolinaandasti
con la tua brocca di cristallo al fonte;
e là vedestisu la grottail drago
l'insonne dragosempre aperti gli occhi;
e tu chiudestio Psychei tuoida lungi
rabbrividendo; ed ecconon veduto
uno ti prese l'anfora di mano
che piena in mano dopo un po' ti rese
e dileguò. Tu lentamente a casa
tornavi smortae con un gran sospiro
apristi gli occhie nel cristallo puro
tu guardasti l'oscura acqua di morte
e vi vedesti il vortice del nulla
e ne tremasti. E Pan allora un dolce
canto soffiò nelle palustri canne
che tu piangesti a quel pensier di morte
come piangevi per desìo d'amore:
lo stesso piantocosì dolceo Psyche!
Ma pur ne tremio Psycheancorae mesta
invochi il sonnoperché a te nasconda
quell'altro sonnoche non vuoipiù grande!
Ma delle voci di cui tu sei schiava
quella che t'ama e ti consola a parte
ecco che ti favella e ti consola:
«Povera Psycheio so dov'è l'Amore.
Oh! l'Amore t'aspetta oltre la morte.
Di làt'aspetta. Se tu passi il nero
fiume sotterratroverai l'Amore.
Tremi? C'è un vecchiovecchio come il tempo
che tutti imbarcae non fa male a Psyche!
E c'è un caneoltre il fiumeche divora
ciò ch'è di troppoe non fa male a Psyche!
Pallida Psycheprendi tra le labbra
che sembrano due petali appassiti
di morta rosaun oboloe leggiero
tienlocosìche te lo prenda il vecchio
né tu lo senta; e chiudi gli occhie dormi.
E prendi una focacciaanchecol miele
e col mite papaveroe leggiera
tienlacosìche te la prenda il cane
né tu lo senta; e chiudi gli occhie dormi.
Appena destarivedrai l'Amore.»
Tu la focaccia prendi sucol miele
tu chiudi nelle labbra scolorite
l'obolo; e non so quale alito lieve
ti porta via. Per dove passiun'ombra
passanon più che d'ali di farfalla.
Ma tu non dormi; e lievemente il vecchio
ti prende il piccolo obolo di bocca;
ma tu lo sentie senti anche la rauca
lena del vecchio rematorecome
se alcuno seghi il duro legnoe come
se alcuno picchi su la putre terra;
anche senti un latratosolitario;
e tremi tantoche di man ti sfugge
ah! la focacciae fa un tonfo nell'acqua
morta del fiume. Ed anche tu vi cadi
cadi nel queto vortice del nulla.
Ma Pan il gregge pasce là su l'orlo
del morto fiume. Non udivi il suono
làdella vita? Tremuli belati
e cupi mugliil gorgheggiar d'uccelli
tra foglie verdie sotto gravi mandre
lo scroscio vasto delle foglie secche.
E ti cullava nella vecchia barca
un canto lungoche da te più sempre
s'allontanava sino a dileguare
nella dimenticata fanciullezza.
Pan! era Pan! Egli ti porge un braccio
ispidoe su ti leva intirizzita
gelidao Psyche; immemore; e ti corca
nuda cosìlieve cosìnel vello
del suo gran pettoe in sé ti cela a tutti.
Quali alte grida là dal mondo! Quali
tristi lamenti intorno alla tua casa
d'argillao Psychedonde più non esce
il tenue fumoalla tua casa vuota
di cui sparve il celeste alito in cielo.
Ti cercano le gentio fuggitiva.
O Psyche! o Psyche! dove sei? Ti cerca
nel morto fiume il vecchio che tragitta
tutti di là. Ti cercaacre fiutando
dall'altra riva il cane che divora
ciò ch'è di troppo. Tuttio Psycheinvano!
O Psyche! o Psyche! dove sei? Ma forse
nelle cannucce. Ma chi sa? Tra il gregge.
O nel vento che passa o nella selva
che cresce. O sei nel bozzolo d'un verme
forse racchiusao forse ardi nel sole.
Ché Pan l'eterno t'ha ripresao Psyche.
II
LA CIVETTA
«O tristi capi! O solo voci! O schiene
vaie così come la biscia d'acqua!
Via di costì!» gridava agro il custode
della prigione. Era selvaggio il luogo
desertoin mezzo della sacra Atene
con sue deformi catapecchie al piede
di bigie roccie dalle strie giallastre
piene di buchiverdeggianti appena
qua e là di partenio e di serpillo.
Il sole era sui montie nell'azzurro
passava fosco a ora a ora un volo
d'aspri rondoni che girava attorno
sopra la roccaalla gran Dea di bronzo
forte strillando. Ed anche in terra un gruppo
di su di giù correvadi fanciulli;
strillando anch'essi. Ed ecco s'aprì l'uscio
della casa degli Undicie il custode
alzò dal tetro limitar la voce.
Egli diceva: «È per voi scianto ancora?
Ieri da Delo ritornò la nave
sacrae le feste sono ormai finite.
Non è più tempo di legar col refe
gli scarabei! Non piùdi fare a mosca
di bronzo!» Un poco più lontano il branco
trassein silenzio. Poi gridarono: «Ohe?
che parli tu di scarabeidi mosche?
È una civetta.» In vero una civetta
tutta arruffata era nel pugno a Gryllo
figlio di Gryllo facitor di scudi
ch'era il più grande. Ma l'avea pocanzi
in un crepaccio Hyllo predatail figlio
d'Hyllo vasaioch'era il più piccino.
In un crepaccio della bigia rupe
sotto un cespuglio di parïetaria
vide due rilucenti Hyllo stateri
d'oronell'ombrae s'appressò; ma l'oro
non c'era più: poi li rivide i due
fissi e tondi nell'ombra occhi d'uccello.
Una civetta della Dea di Atene
immobilmente riguardava il figlio
d'Hyllo vasaio; che con le due mani
all'improvviso l'abbrancò su l'ali
e la portava. E Coccalo sorvenne
che gliela prese; a Coccalo la prese
Cottalo; e Gryllo a lui la vinse: allora
Cottalo pianseCoccalo sorrise
e il piccolino frignò dietro il grande.
Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede
della civettae la facea sbalzare
e svolazzare al caldo sole estivo.
E dai tuguri altri fanciullifigli
d'arcieri scitifigli di metèci
trassero. E in mezzo a tutti la civetta
chiudeva apriva trasognata gli occhi
rotondifatti per la sacra notte.
E il coro «Balla» cantò forte «o muori!»
E nel carcere in tanto era un camuso
Pan boschereccioun placido Sileno
col viso arguto e grossi occhi di toro.
Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi
un giovanetto dalla lunga chioma
bellissimo. E molti altri erano intorno
uominimuti. Ed a ciascuno in cuore
era un fanciullo che temeva il buio;
e il buon Sileno gli facea l'incanto.
«Voi non vedete ciò ch'io sono. Io sono»
egli diceva «ciò che di me sfugge
agli occhi umani: l'invisibile. Ora
s'ei guardacome fosse ebbrovacilla;
ma non è luinon è quest'ioche trema:
trema ciò ch'egli guardache si vede
che mai non dura uguale a séche muore.
Iodi mesono l'animache vive
piùquanto più vive con sélontana
dal mondonella sacra ombra dei sensi.
E s'ella parta libera per sempre
nella notte immortaleove si trovi
ella con tutto che non mai vacilla
ella morrà? non vedrà più?» Qualcuno
«Vedrà» rispose; «Non morrà» rispose.
Poi fu silenzio. Il musico vegliardo
Pan era soloaccanto al suo pensiero
invisibile. Il bello adolescente
supino il capocon la lunga chioma
spioventelungi dalla nucaall'aria
beveva l'eco delle sue parole.
Ed ecco entrò dall'abbaino un canto
d'acute voci: «Balladunqueo muori!»
E il custode dal tetro uscio i fanciulli
striduli fece lontanar nel sole
fuor dell'ombra dei tetti e della roccia.
Ma lànel solemolleggiò più goffa
sul pugno a Gryllos'arruffòchiudendo
aprendo gli occhila civettae i bimbi
ridean più forte. Onde il custode: «O Gryllo
figlio di Gryllotu che sei più savio
dà retta. Sai: codesto uccello è sacro
alla Dea nostraa cui tu canti l'inno
movendo nudo coi compagni nudi
per la città. La nostra Dea sa tutto
ché gli occhi ha grigidi civettae vede
con essi per l'oscurità del cielo.»
«Noche non vede» disse Hyllo «né vuole
vederee chiude gli occhi tondi al sole.»
«Passerotaci. TuGryllo» il custode
riprese«grande già mi sei. Conosco
tuo padreil buono artefice di scudi.
Tu gli somigli come fico a fico.
Fa chetare le tortore ciarliere.
C'è dentro la mia casa uno che muore!»
«Chi? Questa sera?» «Al tramontar del sole!»
«Perché?» «La nave ritornò da Delo.
Ed egli vide un sogno: una vestita
di bianche vestiche gli disse: O uomo
il terzo giorno toccherai la terra!
E la cicutasìberrà dentr'oggi.
Tra pocoo Gryllo. Che in silenzio ei muoia!»
Tacquero allora i giovanetti a lungo
pensando all'uomo che cosìper mare
tornava in patria. E Gryllo disse: «È l'uomo
che andava scalzo e passeggiava in aria
e diceva che il sole era una pietra
e sapeva che terra era la luna...»
Ed in silenzio trassero alla roccia
tuttie stettero presso la prigione
come aspettando. E la civettaal lento
filo costrettasi posò sul ramo
d'un oleastro che sporgea dal masso
sopra i ricciuti capi dei fanciulli.
Si chinòs'arruffòmolleggiòcieca
per la gran luce rosea del tramonto.
E dai tegoli un passero la vide
e garrì contro la non mai veduta
e vennero altri passeri al garrito;
e il frastuono eccitò le rondinelle
e fuori ognuna si versò dal nido;
e da un tacito ombroso bosco sacro
venne la capinera e l'usignuolo.
E grande era lo strepito e il bisbiglio
pur non udito dai fanciulliattenti
ad una voce che venìa di dentro
di chi tornava alla sua patria terra
invisibilee placido parlava
a un'altra barca che incrociò sul mare.
E poi cessato il favellìo di dentro
un dei fanciulli disse: «Hyllotu monta
su le mie spallee narra quel che vedi.»
Hyllo montò sul dorso a quel fanciullo
e sogguardò per l'abbaino: «Io vedo.»
«Hylloche vedi?» «Un buon Sileno vecchio.»
«Che dice?» «Dice che andrà viache il morto
non sarà lui: seppelliranno un altro.»
Il sole in tanto ritraeva i raggi
dai bianchi templi della sacra Atene.
Sola splendea la cuspide dell'asta
che aveva in mano la gran Dea di bronzo.
Brillò d'un tratto e poi si spense; e il sole
calò raggiando dietro il Citerone.
«Hylloche vedi?» «Beve.» «La cicuta!»
«Piangonogli altri; uno si copre il capo
con la vesteuno grida.» «Essoche dice?»
«Dice di far silenziocome quando
si sparge l'orzopresso l'arae il sale.»
Ed era alto silenzioche s'udiva
il passo scalzo su e giù dell'uomo
e poi nemmeno si sentì quel passo..
«Hylloche vedi?» «È sul lettuccio; un altro
gli preme un piede. S'è coperto. Muore...»
«Dunque non esce?» «Ora si scopre. Dice:
Un gallo al Dio che ci guarisce i mali!»
«Che? La cicuta è un farmaco salubre?»
«Uno gli chiude ora la bocca e gli occhi.»
«Dunque non parte? è sempre lì?» «Sìmorto.»
E bisbigliando stavano i fanciulli
lungo la rocciaal buio. Ecco e la porta
s'aprì. N'usciva con singhiozzi e pianti
un vecchioun giovinettoaltri poi molti
tristi gemendo. E dall'inconscie dita
il filo uscì con un lieve urto a Gryllo:
e il sacro uccello della notte in alto
si sollevò con muto volo d'ombra.
E i compagni del morto ed i fanciulli
scosse un subito fremitouno strillo
di sopra il tettoKikkabau... dall'alto
Kikkabau... di più altoKikkabau...
dal cielo azzurro dove ardean le stelle.
E disse alcunoudendo il fausto grido
della civetta: «Con fortuna buona!»
I GEMELLI
Che sente il fiore cui la molle forza
di vita svolge i petali del boccio?
Quel che sentiva allora la fanciulla
che si svolgea dal calice più bianca
e più sottileil collo così lasso
che lo piegava l'occhio di sua madre.
La neve già struggevama non tutta:
se ne vedeva qua e là sui monti.
Spuntava l'erbaverdicava il salcio
e ravvenate ora mescean le polle.
Era sui montiera a bacìo la neve
ancora: ella si fece anche più bianca
e più sottile: un pianto nella casa
sonò: poila fanciulla era sparita.
E il suo gemello la richiese al padre
meditabondo. Egli accennò lontano.
E la richiese alla soletta madre
che gli sorrisee lacrimò più tanto.
«Sappi: è nel prato asfòdelo... C'è bello...
Lietasebbene senza il suo gemello...
Nonon è solama tra un fitto sciame...
Un fiore hanno alla sete ed alla fame...
Sì: tu ci andrai... Sì: la vedrai... tra giorni...
Resta con me! s'ora ci vainon torni!»
Ma il giovinetto andò per prati e boschi
sempre cercando. Un giorno seguì l'api
a un pratole ronzanti api ad un fonte.
Nel fonte ritrovò la sua sorella.
Il giovinetto si chinò sul fonte
e la fanciulla apparve su dal fonte.
Egli era mestoed eraanch'ellamesta.
Ma le sorriseed ella gli sorrise.
Aprì la bocca per chiamarla a nome;
subito anch'ella aprì la bocca a un nome.
Ed egli chiesechi l'avea rapita
se lieta le era la solinga vita;
ed ella presto rispondeama troppo
ch'ella parlava mentre egli parlava.
Ed egli tacqueed ella tacque: allora
egli ripresema riprese anch'ella.
E il giovinetto non intesee pianse.
E la fanciulla si confusee pianse.
Ora una voce chiamò lui: la voce
della sua madre che l'avea smarrito.
«Ci chiama. Vieni con il tuo gemello
dalla tua madre. C'ècon leipiù bello!»
Ella rispose; ma fondea nell'ansia
le sue parole con le sue parole.
«Qui non c'è fiori per il tuo digiuno!
Tu sei nel prato ove non c'è nessuno!»
La madre ancora lo chiamò. Le labbra
chinò... che freddo in quelle dolci labbra!
Le diede un bacio sussurrandoAddio!
ed un gorgoglio udì nell'acqua: Addio!
E il giovinetto s'alzò su dal fonte
e la fanciulla sparve giù nel fonte.
«O madre! O madre! È dove tu m'hai detto!
Ma ella è solanel fonte soletto.
Non ho veduto altro che il suodi capi.
Non ho sentito altro ronzioche d'api.
Non ha vicine altre compagne care!
Non ha quei fiori per il suo mangiare!
Vieni tumadre; ella ritornerà!»
«O figlio! O figlio! T'ha deluso un Dio!
Il fior che dissi è il fiore dell'oblio.
E tu non vieni dal fiorito prato
ch'è più lontano del cielo stellato!
A chi ci vagli è pressocome l'orto;
ma chi ne tornaanche se arriva smorto
a dove dormìè tuttavia di là!»
Ma il giovinetto le afferrò la mano
e disse: «O Vienise non è lontano!»
Egiunti al pratosi chinò sul fonte
e la sorella venne su dal fonte.
Ah! ma nel fonte presso il suo sorriso
c'era la madre col suo mesto viso!
«O madre! O madre! Ecco che lei s'attrista
dacché nel grave tuo dolor t'ha vista!»
«O figlio! O figlio! Io sono lì pur quella!
Non hai due madri! E non hai più sorella!»
E turbò l'acqua. E madre e figlia sparve
oscuramentequa e lànel gorgo;
fin cheondeggiandotremulia fior d'acqua
vennero ancora figlio e madre in pianto.
Ed egli allora oh! sìcapì. Ma venne
per molti giorni al tralucente lago
a rivedere in sé la sua sorella
che in lui viveva; ed esso in lei moriva.
Ed era il tempo che il nostro dolore
cadea qual semee ne nasceva un fiore:
un fior dal sangue delle nostre vene
un fior dal pianto delle nostre pene.
Ed egli fu il leucoioella il galantho
il fior campanellino e il bucaneve.
E questo avea tre petali soltanto;
e quelloseicoi sommoli un po' verdi.
Candidi entrambia capo chino entrambi.
Spuntava il crocoil morto per amore
bel giovinetto. E non fu lor compagno.
E non l'AI AI videro del giacinto
dal vento ucciso. Non fioriva ancora.
Erano soli soli; ché la neve
era sui montiera a bacìotuttora.
E qualche alatoch'ebbe vita umana
giàcome lorogià piangeama seco
sommessamente: o dentro sé pensava
quel pianto amaro ch'è poi dolce canto.
I due puri gemelli esili fiori
fu breve la lor vita anche di fiori.
Amor fu quello prima dell'amore.
Nonforseamorema dolorsìera.
Sparvero prima della primavera.
I VECCHI DI CEO
I
I DUE ATLETI
Nella rocciosa Euxantidesul monte
tra la splendida Iulide e l'antica
sacra Carthaiacauto errava in cerca
non so se d'erbe contro un male insonne
o di fiori per florido banchetto
Panthide atleta: atleta giàma ora
medicodi salubri erbe ministro.
E coglievapiù certoerbe salubri
ché il capo bianco non chiedea più fiori.
Partito già da Iulide pietrosa
era su l'alba. Or l'affocava il sole;
sì che saliva al vertice del monte
folto di quercie nel cui mezzo è l'ara
del Dio che manda all'arsa Ceo le pioggie
tra un bombir lieto. E giunse tra le quercie
sul ventilato vertice. E gli occorse
uno ascendente per la balza opposta.
E riconobbe un vecchio ospiteatleta
anch'esso: Lachonche vedeasi in casa
molte coroneil secco appio dell'Istmo
il Nemèo verdenon ormai già verde
e l'alloro e l'olivo: altri germogli
no; non di cari figli altra corona.
Ché solo egli era. E per la via selvaggia
coglieva anch'esso erbe salubri o fiori
per morbo insonne o florido convito:
mapiù certosalubri erbeché un cespo
svelgendo allora da un sassoso poggio
le vecchie rughe egli facea più tante.
Ora gli stette agli omeri Panthide
non anco vistoimmobilecol fascio
dei lunghi steli dietro il dorso; e l'altro
sentì che un'ombra gli pungea la nuca;
e si voltò celando la mannella
della sua messe. Ma con un sorriso
a lui mostrò la sua Panthidee disse:
«Oh!» disse «vedo. Non è crespo aneto
Lachonper un convito; non è mirto;
né cumino né molle appio palustre...»
Erano cauli connel gamborosse
chiazze e con bianchi fiorelliniin cima.
E Lachon interruppe: «Ospiteil Tempo
che viene scalzoall'uno e all'altro è giunto
della cicuta; come è patria legge:
CHI NON PUò BENEMALE IN CEO NON VIVA.
»Disse Panthide: «Ricordiamo il detto
dell'usignolo che di miele ha il canto
dell'isolana ape canora: Il cielo
alto non si corrompenon marcisce
l'acqua del mare... L'uomo oltre passare
non può vecchiezza e ritrovare il fiore
di gioventù.» «Noi ritroviamo il fiore
della cicuta!» con un riso amaro
Lachon ripresee poi soggiunse: «Un fascio
cogliernetutto in un sol dìper vecchi
ospiteè grave. Oh! non ha senno l'uomo!
Sin dalla lieta gioventù va colto
un gambo al giornoil fiore della morte!»
II
L'INNO ETERNO
E sederono all'ombra d'una quercia
l'un presso l'altro. Sotto la lor vista
tra bei colli vitati era una valle
già bionda di maturo orzo; e le donne
mietean cantandoe risonava al canto
l'aspro citareggiar delle cicale
su per le vigne solatìe dei colli.
E nella pura cavità del cielo
di qua di là si rispondean due voci
parlando di lor genti che lontane
tenea Corinto dove è un tempio dove
sono fanciulle ch'hanno ospiti tanti...
E nel mezzo alla valle era Carthaia
simile a bianco gregge addormentato
da quell'uguale canto di cicale.
Il mare in fondoqualche vela in mare
come in un campo cerulo di lino
un portentoso biancheggiar di gigli.
Tra mare e cielosopra un'erta roccia
la Scuola era del coro: eradi marmo
candidola ronzante arnia degl'inni.
Ivi le frigie tibieivi le certe
doriche insieme confondean la voce
simile ad un gorgheggio alto d'uccelli
tra l'infinito murmure del bosco.
Ivi sonavadolce al cuorla lode
del giovinetto corridore e il vanto
del lottatore; e per sue cento strade
l'inno cercava le memorie antiche
volava in cielosi tuffava in mare
incontrava sotterra ombre di morti
tornandoebbro di gioia ebbro di pianto
con due fogliuzze a coronar l'atleta.
Era lontanoe non vedean che il bianco
dei marmi al solei due pensosi vecchi.
Eppur di là l'alterna eco d'un inno
giungeva al cuoreo forse era nel cuore.
Da destra il giorno si movea col sole
portando il canto e l'opere di vita
verso sinistraal mesto occasodonde
co' suoi pianeti si volgea la notte
tornando all'alba e conducendo i sogni
echi e fantasmi d'opere canore.
Fluiva il giornorifluìa la notte.
Sotto il giorno e la nottee la vicenda
di luce e d'ombradi speranza e sogno
stava la terra immobile. Ma il coro
era più rapido. Arrivava un'onda
dal mareun'altra ritornava al mare.
Era la vita. Dopo il moto alterno
d'un'onda sola che salìa cantando
scendea scrosciandomormorava il mare
immobilmente. E molte vite in fila
salìan dal mare riscendean nel mare:
quindi l'eterno. E dall'eterno altre onde:
i figli. Altre onde dall'eterno: i figli
dei figli. E onde e ondee onde e onde...
III
EFIMERI
Disse Panthide: «Ospiteho cinque figli
molto lodaticome sai: Zelòto
il primo: Argeobuono alla lottaeppure
fiorito appena di peluria il labbro
l'ultimo: è questi ora su l'Istmoai giochi.
Lachonascolta. Ieri udiisu l'alba
un grido in casaun fievole vagito
che mi chiamava al talamo del figlio
più grande. Andai. Vidi una luce: un uomo
novo fiammante! E con le sue manine
egli annaspava come a dire - O vedi
ch'io l'ho pur qui la lampada di vita
accesa a quella ch'alla tua s'accese!
Più non è danno se la tua si spenge:
Son io Panthide. Puoi partireo nonno! -
Parlato ch'ebbeegli movea le labbra
come assetato... E io dovrei tutt'ora
tener le labbra al pispino del fonte
vietando io vecchio al mio novello il bere?
gli dovrei forse intorbidar la polla?
Io parto. Ecome io sono luinon muoio.»
E Lachon disse: «Oh! io vorrei che un poco
la piccoletta fiaccola negli occhi
miei balenasse! Oh! io vorrei per poco
con la mia mano ripararle il vento!
vorreiseduto per qualche anno al fonte
di vitasenza berne più che un sorso
vorrei vedere quella rosea bocca
arrotondarsi sul bocciuol materno!
Ospiteio credopiù di me tu muori.»
Tacquero intenti a udirsidentrol'inno
del lor respiroonda che viene e onda
che vaseguite da un pensiero immoto.
Le mietitrici avean ripreso il canto
tra l'orzo biondoe risonava al canto
l'aspro citareggiar delle cicale.
E disse Lachon: «Troppo bellao sacra
isola Ceo! Chi nacque in teche volle
morire altrove? Ma sei poca a tanti!»
A cui Panthide: «Poca sì... ma Delo
appena morti i figli suoi bandisce.
Partono i morti dalla sacra Delo
sopra la nave neraesulie vanno
mirabilmente pallidisul mare
alla Rhenèa dove non son che morti;
e sole capre e pecore selvaggie
belano errando sopra il lor sepolcro.»
Lachon pensava e su la palma il capo
reggea dubbioso. «Io mi ricordo» ei disse
«un inno uditoora è molt'anniin Delfi
lungo l'Alfeo: Siamo d'un dì! Cheuno?
cheniuno? Sogno d'ombral'uomo!»
L'ombra di lui teneva su la palma il capo:
pensavaa piè dell'albero; e vicine
stridere udiva l'ombre delle foglie.
IV
L'INNO ANTICO
Poi raccolti i lor fasci di cicute
sorsero entrambie dissero: Va sano!...
Va sano!... E ritornavano cogliendo
ancor pei greppi i fiori della morte.
Esalava il canùciolo e il serpillo
odor di cera e dolce odor di miele.
Ronzavano api e scarabei de' fiori.
E Lachon giunse al prònao d'Apollo
alla Scuola del coro. Era già sera
una sera odorosa; ed il suo nome
udì gridare a voci di fanciulli.
Eran fanciulli chein lor giochiun inno
volean cantare a mo' dei grandiun inno
vecchioche ognuno avevain Ceonel cuore.
Presto un impube corifeo la schiera
ebbe ordinatae già da destra il coro
movea cantando per la via del sole
verso la seracon gridìo d'uccelli.
Pubertà
fonte segreto che spiccia
senza un tremito e un gorgoglio
ma che di tenero musco
veste insensibilmente lo scoglio:
a te dia Lachon l'erba del leone
l'appio verde del bosco Nemèo.
Conobbe l'innoil primo inno cantato
a lui quand'era il suo destino in boccia
tuttoraquanti anni passati? Tanti!
E da sinistra volsero i fanciulli
come i notturni aurei pianetia destra.
Nulla sta!
Tutto nel mondo si muove
correo giovinetto atleta
come nell'inclito stadio
tu col piede di vento alla meta:
di che la prima delle tue corone
tu riporti all'Euxantide Ceo.
I fanciulli si volsero con gli occhi
al cielo e al marefermi su la terra
sacraalzando le acute esili voci.
Ora è ora d'amare.
L'appio verde vuoi sol tu?
Corranoun tempole gare
dove Lachon non sia più
giovani ch'ansino e rapidi sbuffino l'anima
tuala tualungo l'Alfeo!
E nel cospetto dei fanciulli apparve
Lachon il vecchio con le sue cicute
e intorno al vecchio corsero i fanciulli
gridando: «A noiperché ci sia ghirlanda!
l'appio a noi! l'appio verde! l'appio verde!»
V
L'INNO NUOVO
E Panthide a quell'ora era pur giunto
sotto l'aerea Iulide natale.
E vide in mare una biremee vide
che ammainando entrava già nel porto.
E dall'aerea Iulide e dal grande
leon di pietra accovacciato in vetta
il popolo scendea lungo l'Elixo
scendea dall'alto in lunga fila al mare.
Veniano primi i giovinetti a corsa
dando alla brezza i riccioli del capo;
poi le donne altocinteultimi i vecchi
spartendo tra due passi una parola.
Poi che giungea dall'Istmola bireme
portando alfine i buoni atleti a casa
e quante niuno ancor sapeaghirlande.
E trasse al lido anche Panthidein seno
celando il fascio delle sue cicute.
Stava in disparte. Ed ecco dalla nave
scese una schiera di settanta capi
brunitutti fioriti di corimbi
e su la spiaggia stettero. Un chiomato
citaredo sedé sopra un pilastro
e presso lui gli auleti con le lunghe
tibie alla bocca. E il mare eternoil mare
alternoa spiaggia sospingea l'ondate
le ricoglieacosì tra il canto e il pianto.
Stridé la tibiatintinnì la cetra
e il coro alzò tra il sussurrìo del mare
un inno di Bacchylide. In disparte
era Panthidee il vecchio cuor batteva
contro la manna delle sue cicute.
L'onda ascendevadiscendeva l'onda;
e il coro andòpoi ritornò sul lido.
O sacra Ceo!
mosse ver te la fulgida
Fama che in alto spazia
a te recando un messo
pieno di grazia
che nella lotta il pregio
fu del valido Argeo;
e noi la grande
gloriasull'istmio vertice
venuti dall'Euxanti-
d'isola diafacemmo
chiara coi canti
nostrinoi coro adorno
di settanta ghirlande:
ed or la musa indigena
suscita il dolce strepito
di tibie lyde
per onorar d'un inno
il tuo figlioo Panthide!
Udì Panthidee il cuor batté più forte
contro la manna delle sue cicute.
Ora poteva sciogliere la vita
felicementecome alcuno un fascio
d'erbe e di fiori che nel giorno colse
sfasu la serache ne fa ghirlanda
tornato a casa. Ché dei cinque figli
niuno lasciava senza lode in terra.
Gli avea ben fatto il Solee dalle Grazie
avea sortito ciò Che all'uomo è meglio.
Ammirato dagli uomini mortali
tornava a casaper pestareil saggio
medicol'erbe nel mortaio di bronzo.
E la notte era dolceaurea; tranquillo
era il suo cuore. Ché il Panthide nuovo
s'era acquetato sul materno petto
e il forte Argeostanco di mare e gioia
dormivagià sognando altre corone.
Buonala sorte! buona! Ché concesso
non gli era mica di salire al cielo!
ALEXANDROS
I
- Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldosquilla!
Non altra terra se non lànell'aria
quella che in mezzo del brocchier vi brilla
o Pezetèri: errante e solitaria
terrainaccessa. Dall'ultima sponda
vedete làmistofori di Caria
l'ultimo fiume Oceano senz'onda.
O venuti dall'Haemo e dal Carmelo
eccola terra sfuma e si profonda
dentro la notte fulgida del cielo.
II
Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate
portate il cupo mormorìoche resta.
Montagne che varcai! dopo varcate
sì grande spazio di su voi non pare
che maggior prima non lo invidïate.
Azzurricome il cielocome il mare
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristarenon guardare oltresognare:
il sogno è l'infinita ombra del Vero.
III
Oh! più felicequanto più cammino
m'era d'innanzi; quanto più cimenti
quanto più dubbiquanto più destino!
Ad Issoquando divampava ai vènti
notturno il campocon le mille schiere
e i carri oscuri e gl'infiniti armenti.
A Pella! quando nelle lunghe sere
inseguivamoo mio Capo di toro
il sole; il sole che tra selve nere
sempre più lungiardea come un tesoro.
IV
Figlio d'Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheol'auleta:
soffio possente d'un fatale andare
oltre la morte; e m'è nel cuorpresente
come in conchiglia murmure di mare.
O squillo acutoo spirito possente
che passi in alto e gridiche ti segua!
ma questo è il Fineè l'Oceanoil Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua. -
V
E cosìpiangepoi che giunse anelo:
piange dall'occhio nero come morte;
piange dall'occhio azzurro come cielo.
Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell'occhio nero lo sperarpiù vano;
nell'occhio azzurro il desiarpiù forte.
Egli ode belve fremere lontano
egli ode forze incogniteincessanti
passargli a fronte nell'immenso piano
come trotto di mandre d'elefanti.
VI
In tanto nell'Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda nottetra le industri ancelle
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d'un fonte
ascolta nella cava ombra infinita
le grandi quercie bisbigliar sul monte.
TIBERIO
I
Discende a notte Claudïo dal monte
Borèo: col vento dalle nubi fuori
rompe la luna e gli balena in fronte
fuggendo. Egli rimiraa quei bagliori
Livia e l'infante: intorno vanno frotte
silenziose di gladïatori.
S'ode tra lunghe raffiche interrotte
l'Eurota in fondo mormorar sonoro;
s'ode un vagito. E nella dubbia notte
le nere selve parlano tra loro.
II
Rabbrividendo parlano le selve
di quel vagito tremuloche a scosse
va tra quel cauto calpestìo di belve.
Sommessamente parlanocommosse
ancor dal ventoche vanì; dal vento
Boreache le aspreggiòche le percosse.
Dal ciel lontano a quel vagito lento
egli era accorso; ma nell'infinito
ansar di tuttodopo lo spavento
risuona ancora quel lento vagito.
III
Chi vagisceè Tiberio. E il vento accorre
dal ciel profondo tuttavia; spaura
le nubi in fugae sbocca dalle forre.
Le selve il mormorìo della congiura
mutano in urloe gli alberi giganti
muovono orridi in una mischia oscura.
Lottano i pini coi disvincolanti
frassinie l'elci su la stessa roccia
coi faggi urtano i vecchi tronchi infranti.
E il fiore della fiamma apresi e sboccia.
IV
Sboccia la fiammae il vento la saetta
come una frusta lucida e sonante
via per ogni pendìoper ogni vetta.
Il vento con la frusta fiammeggiante
col mugghio d'una mandrïa di tori
cerca il vagito del fatale infante.
Ardono i monti; ma ne' suoi due cuori
Livia tranquillaindomitaribelle
tra i rossi òmeri de' gladïatori
nutre Tiberio con le sue mammelle.
GOG E MAGOG
I
A mandrecome gli asini selvaggi
in vano andava e ritornava in vano
Gog e Magog coi neri carriaggi;
e la montagna li vedea nel piano
errareudiva di tra le tormente
di quelle fruste lo schioccar lontano;
ed un bramir giungevadella gente
di Mongcome umile abbaiar di iene
all'inconcussa Porta d'occidente.
II
Ché tra due monti grande eradi rosso
bronzouna porta; grande sìche l'ombra
ne trascorreva all'ora del tramonto
mezza la valle. Il figlio dell'Ammone
la incardinò per chiudere gl'immondi
popolie i neri branchi di bisonti:
la sprangòchiuse. Ma ristette al sommo
dei monti: un chiaro strepere di trombe
giungea dalle Mammelle d'Aquilone.
III
V'era il Bicorne... E gli ultimi cheinfanti
aveano udito il gran maglio cadere
su le chiavardeerano grigi vecchi;
e non partiva... E i figli lorgiganti
dagli occhi fiammeidalle lingue nere
o nani irsuti dai mobili orecchi
erano morti; e d'ognun d'essii mille
erano natiquante le faville
da un tizzo: ma il Bicorne era lassù.
IV
In alto in altoa guardia dell'Erguene-
cun; e lo squillo delle sue diane
movea valanghe e rifrangea morene.
S'empivaogni albail cielo di poiane;
e l'Orda a vallecome nubi al suono
del nembonera s'addossava al Kane:
carri che rotolavano dal cono
delle montagne; un subito barrito
d'elefanti; una voce come tuono...
V
Ma meno udian di giorno quel tumulto
lassù; di giorno anche le genti chiuse
ruggìanoe il cibo dividean con l'unghie.
Vaniva il grido di lassù nell'urlo
della lor fame. Eradi giornotutto
al sangueAlanAnegAgegAssur
ThubalCephar. Piùnelle notti lunghe
s'udivaquando concepìannel Yurte
le loro donne i figli di Mong-U.
VI
La luna andava su per orli gialli
di nubiin fuga: per l'intatta neve
stavano in cerchio mandre di cavalli:
le teste in dentroimmobilitra il bianco
stavano: a ora a ora un nitrir breve
un improvviso scalpitìo del branco.
Ché tutta la montagna solitaria
muggìa. Temeva anche la lunae lieve
balzava suda nube a nubein aria.
VII
O risplendea sul murmure infinito
pendula. Cinto d'edere e d'acanti
l'Eroetolte le faci del convito
scorreva in festa i gioghi lustreggianti
e laggiùdalle tonde ombre dei pini
l'Orda ascoltava lunghi aerei canti;
udiva lunghi gemiti marini
di concheetra il tintinno della cetra
timpani cupicimbali argentini.
VIII
Gog e Magog tremava; e le sue donne
dissero: «Non ha madre Eglicui dolce
gli sia tornarepieno d'ambra e d'oro?
non figligreggi? non fiorenti mogli
presso cuisazio di narrarsi corchi?
Forse hanno a sdegno lui così bicorne!
Dunque e perché non scende Egli dal monte
né prendesi una dalle nostre torme
che gli sia bestiatra Gog e Magog?»
IX
Gog e Magog tremava... Uno dei nani
cauto trovò gli stolidi giganti.
«Noi moriamoo gigantied Egli no.
Io che muovo gli orecchi come i cani
intesi cose. Non c'è sempre avanti
Zul-Karnein. A volte a Rum andò.
Parte col sole. A un fonte vadi stelle
liquideazzurro. Con le due giumelle
v'attinge vita. Ogni cent'anni un po'.»
X
Ora Egli un giorno (la Montagna tetra
parea più presso ecome scheletrita
mostrava il bianco ossame suo di pietra)
per l'ombradove non sapea che dita
reggeano erranti lampade d'argento
per l'ombra andava al fonte della vita.
E non più squilli di tra i gioghie il vento
soffiava in vano. La gran Porta un poco
brandivaa tratticon émpito lento.
XI
Gog e Magog tre dìvigileattese;
tre notti attese; e non udìche a sera
la Porta a quando a quando brandir lenta.
Non c'era più sui monti... E l'Orda prese
la via dei monti. Andava l'Orda nera
formicolando sotto la tormenta.
All'alba mugliò lugubre un bisonte
nitrì un cavallosi spezzò la schiera...
Uno squillo correa da monte a monte.
XII
E dissero le donne: «Uomo da nulla
Zul-Karnein! Tornasti in fretta! O forse
non c'era al fonte sola una fanciulla?
non una tua sorellache la secchia
abbandonò vuota sul fontee corse
ansando in casa alla tua madre vecchia?
Or fadivino arietesonare
le trombe! Al suono delle tue fanfare
l'uom ci si destae poi... non dorme più.»
XIII
E gli uomini ulularono: «Ha bevuto
in Rum al fonte delle stelle azzurro!
Zul-Karnein è sempre ciò che fu.»
E lor fu in odio ogni altra vitae il frutto
d'ogni altro ventre; e il rosso sangue munto
bevvero alle bisontialle zebù.
Né più sonava per la valle un muglio.
Non sonò piùGog e Magogche l'urlo
interminato delle sue tribù.
XIV
Ma sìpartì Zul-Karneinnel fuoco
d'un vespro: per il monte erano stese
porpore cupe a margini di croco.
Nel cocchio d'oro folgorando ascese
l'Eroe; nell'ombra lontanò tra un gaio
ridere di berilli e di turchese
Un balenìo di cuspidi d'acciaio
un'eco d'inni che tremola ed erra
qua e là... Tacque infine irto il ghiacciaio.
XV
Tre anni attese il Tartarotre anni
spiò l'arrivo degli stessi draghi
dagli occhi d'oro sopra la montagna
tacita e sola. Il Tartaro guardava
né già temevae più sentìa la fame
e l'irae con man d'orso per la valle
svellea betullesradicava ontani.
Ma vide gli occhi degli stessi draghi
la terza voltae venne alla montagna.
XVI
A piè delle Mammelle d'Aquilone
giunsero cauti. E il vecchio nano astuto
con mani e piedi rampicò sui tufi.
E vide in cima un grande padiglione
come di trombae vi scivolò muto:
v'udì soffivi scorse occhi di gufi.
Un nido immondo riempiva il vuoto
di quella tromba. Un grande gufo immoto
v'eradue ciuffi in capo irtida re.
XVII
Prese due penne il vecchio nanoe stette
sopra una rocciaed agitò le penne
e chiamò l'Ordache attendeva: «A me
Gog e Magog! A meTartari! O gente
di MongMosachThubalAnegAgeg
AssumPothimCepharAlana me!
A Rum fuggì Zul-Karneinle ferree
trombe lasciando qui su le Mammelle
tonde del Nord. Gog e Magoga me!»
XVIII
O stolti! Quelle trombe erano terra
concavadonde il vento occidentale
traevaansandostrepiti di guerra.
Rupperle disdegnando col puntale
de' lor pungettie dalle trombe rotte
gufi uscivan con muto batter d'ale.
Risero accortie sparsi per le grotte
bevvero sangue. Sopra loro un volo
mutodi sognie i gridi della notte.
XIX
Alla gran Porta si fermò lo stuolo:
sorgeva il bronzo tra l'occaso e loro.
Gog e Magog l'urtò d'un urto solo.
La spranga si piegò dopo un martoro
lungo: la Porta a lungo stridé dura-
mentee s'aprì con chiaro clangor d'oro.
S'affacciò l'Ordae vide la pianura
le città bianche presso le fiumane
e bionde messi e bovi alla pastura.
Sboccò bramendoe il mondo le fu pane.
LA BUONA NOVELLA
I
IN ORIENTE
I
Si vegliava sui monti. Erano pochi
pastori che vegliavano sui monti
di Giuda. Quasi spenti erano i fuochi.
Altri alle tombe mutealtri alle fonti
garrulepresso. Il plenilunio bianco
battea dai cieli sopra le lor fronti.
Ognun guardava ai cielicome stanco
stanco nel cuore; ognuno avea vicino
il dolce uguale ruminar del branco.
Sostava sino all'alba del mattino
il cuor del greggesazio di mentastri;
ma il cuore de' pastori era in cammino
sempre; ch'erano erranti come gli astri
essi: avean la bisaccia irta di peli
al colloe tra i ginocchi i lor vincastri
e cinti i lombie nella mano steli
d'issopo. E alcunocome è lor costume
cantavafisocome stancoai cieli.
E il cantosotto i cieli arsi dal lume
a piè dell'universoera sommesso
era non più che un pigolìo d'implume
cadutosotto il suo grande cipresso.
II
Maath cantava: - O tu che mai non poni
il tuo vincastroe che pari nell'alto
le taciturne costellazïoni
Dio! che la nostra vita cader d'alto
faicome pietradalla tua gran fionda...
la pietra cade sopra il Mar d'asfalto.
Pietra ch'è nel Mar morto e non affonda
la vita! Cosa grave che galleggia
e va e va dove la porta l'onda!
O Dionoi siamo come questa greggia
che va e vané posso dir che arrivi
nemmen se giunga al pozzo della reggia! -
Addì cantava: - Tusola tuvivi
o greggiache non mai dalle tue strade
vedi la Morte ferma là nei trivi.
Vedo qualche smarrito astro che cade:
muore anche l'astro. Ma tupago il cuore
stai ruminando sotto le rugiade.
O greggiasolo chi non sanon muore!
Tu non odi l'abisso che rimbomba
presso il tuo dentee strappi lieta il fiore
del loto eterno ai sassi della tomba.
III
E un canto invase allora i cieli: PACE
SOPRA LA TERRA! E i fuochi quasi spenti
arseroe desta scintillò la brace
come per improvvisa ala di venti
silenzïosie si sentì nei cieli
come il soffio di due grandi battenti.
Erano in alto nubipari a steli
di gigliosopra Betlehem; già pronti
eranoin piediattoniti ed aneli
i pastori guardando di sui monti
e chi presso le tombeonde una voce
uscìa di cullae chi presso le fonti
onde un tumulto scaturìa di foce:
e un angelo eracon le braccia stese
tra lorocome un'alta esile croce
bianca; e diceva: «Gioia con voi! Scese
Dio sulla terra.» Ed a ciascuno il cuore
sobbalzò verso: il bianco angeloe prese
via per vedere il Grande che non muore
come l'agnello che pur va carponi;
il Dio che vive tutto in sépastore
di taciturne costellazioni.
IV
Mossero: e Betlehemsotto l'osanna
de' cieli ed il fiorir dell'infinito
dormiva. E videroeccouna capanna.
Ed ai pastori l'accennò col dito
un angelo: una stalla umile e nera
donde gemeva un filo di vagito.
E d'un figlio dell'uomo erama era
quale d'agnello. Esso giacea nel fieno
del presepee sua madreuna straniera
sopra la paglia. Era il suo primoe il seno
le apriva; e non aveva ella né due
assi: all'albergo alcun le disse: È pieno.
Nella capanna povera le sue
lagrime sorridea sopra il suo nato
su cui fiatava un asino ed un bue.
- Noi cercavamo Quei che vive... - entrato
disse Maath. Ed ella con un pio
dubbio: - Il mio figlio vive per quel fiato...
- Quei che non muore... - Ed ella: - Il figlio mio
morrà (dissee piangeva su l'agnello
suo tremebondo) in una croce... - Dio... -
Rispose all'uomo l'Universo: È quello!
II
IN OCCIDENTE
I
Grandelungo le molte acqueal sussurro
del fiume eternosopra i sette monti
bianca di marmo in mezzo al cielo azzurro
Roma dormiva. Agli archi quadrifronti
battea la luna; e il Tevere sonoro
fiorìa di spuma percotendo ai ponti.
Alto fulgeva col suo tetto d'oro
il Capitolio: ma la notte mesta
adombrava la Via Sacra del Foro.
Nell'ombra un lume: il fuoco era di Vesta
che tralucea. Nel tempio le Vestali
dormian ravvolte nella lor pretesta.
Era la notte dopo i Saturnali.
Nelle celle de' templisui lor troni
taceano i numisoli ed immortali.
Intorno alla Dea Madre i suoi leoni
giacean nel sonno. Gli ebbri Coribanti
dormian con nell'orecchio ululi e tuoni.
Rosso di sangue uno giaceva avanti
la Dea. Dischiuso il tempio era di Giano.
Esso attendevacoi serrami infranti
l'aquile che predavano lontano.
II
Roma dormivaebbra di sangue. I ludi
eran finiti. In sogno le matrone
ora vedean gladiatori ignudi.
Ne' triclini ai dormenti le corone
eran cadutee s'imbevean le rose
nel sangue che fluì dal mirmillone.
Dormivan su le umane ossa già rose
le belve in fondo degli anfiteatri;
e gli schiavi tornati erano cose.
Dopo la breve libertànegli atrï
giacean gli ostiari alla catenaquali
cani la cui leggera anima latri.
Era la notte dopo i Saturnali;
ed ogni schiavo dalla tarda sera
dormivaudendo ventilar grandi ali
e gracidare. Erano cigni a schiera
sul patrio fiume... No: su l'Esquilino
erano corvi in una nube nera...
Ei tesseva e stesseva il suo destino:
vedea sua madre; poi sentia la voce
del banditore: apriva al suo bambino
le bracciae le sentia fitte alla croce.
III
Roma dormiva. Uno vegliavaun Geta
gladïatore. Egli era nuovoappena
giunto: il suo piedebianco era di creta.
L'aveancol raffiotratto dall'arena
del circo; e nello spolïario immondo
alcun nel collo gli aprì poi la vena
Rantolava; il silenzio era profondo:
il cader lento d'una goccia rossa
solo restava del fragor del mondo.
Ma d'uomini gremita era la fossa
in cui giaceva. All'occhio suotra un velo
parea scoprirne e ricoprirne l'ossa.
Ed era soloe l'uomo che col gelo
lo pungea di sua cutepiù lontano
gli era del più lontano astro del cielo;
più della terra suapiù del suo piano
lunghesso l'Istroe de' suoi bovi ch'ora
sdraiati ruminavano pian piano
e de' suoi figli ch'attendean l'aurora
piccoli nella lor nomade cuna
e del suo plaustroch'era sua dimora
là fermo e nero al lume della luna.
IV
E venne bianco nella notte azzurra
un angelo dal cielo di Giudea
a nunzïar la pace; e la Suburra
non l'udiva; e nel tempio alto di Rhea
bandì la pace; e non alzò la testa
quell'uomo rosso ai piedi della Dea;
e videun fuocoe dissePACE; e Vesta
ardevae le Vestali al focolare
sedeano avvolte nella lor pretesta;
e vide un tempio apertoe dal sogliare
mormoròPACE; e non l'udì che il vento
che uscì gemendo e portò guerra al mare.
E l'angelo passò candido e lento
per i taciti trivie diceaPACE
SOPRA LA TERRA!... Udì forse un lamento...
Vegliavail Geta... Entrò l'angelo: PACE!
disse. E nella infinita urbe de' forti
sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace·
Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti
e i morti ai mortie le tombe alle tombe
e non sapeano i sette colli assorti
ciò che voi sapevateo catacombe.