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POEMI CONVIVIALI

 

[1904]

 

 

 

NON OMNES ARBUSTA IUVANT

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALL'AMICO ADOLFO DE BOSIS

 

ADOLFOil tuo CONVITO non è terminato. Nelgennaio del 1895 cominciavae doveva continuare per ogni mese di quell'annoinRoma. Come fui chiamato anch'io a far parte di quel «vivo fascio di energiemilitanti le quali valessero a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbidaonda di volgarità che ricopriva omai tutta la terra privilegiata dove Leonardocreò le sue donne imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili»?

In quel gennaio cominciavo e in quel decembre avrei compitoil mio quarantesimo anno. Tutte le giornatedal gennaio al decembremi siconsumavano nell'esercizio del magistero. Avevo veduta una sola voltae disfuggitae distratto da altre debite cureRoma. Sottili facevo le spesecomepar giusto alla nostra madre Italia che povera e trita passi la vita di coloroche le educano e istruiscono gli altri figlinostri minori fratelli. Ero diquelli che s'erano ritratti «a coltivare» (secondo altre parole del Proemiodel CONVITO) «a coltivare la loro tristezza come un giardinosolitario». Eppureno: non ero di quelli; chéin veritànon avrei cercatod'avereper un mio proprio gustodi quella tristezza e il fiore e il frutto! Oinameni fiori! O frutti amarissimi! Chi vorrebbe essere l'ortolano e ilgiardiniere della morte? I frutti degli alberi nei cimiteri non si mangianomasi lasciano cadere. Non si dà alle bestie l'erba che nascecosì rigogliosacosì fioritanei camposanti; ma si brucia. Ora io coltivavo e coltivo quellatristezza per un qualche utile dei miei simili; per dire ad essi la parola cheforse importa più di tutte le altre: che oltre i mali necessari della vita eche noiquali possiamo appena attenuarequali nemmeno attenuarevi sono altrimali che sono i soli veri malie questi sì possiamo abolire con somma e prontafacilità. Come? Col contentarci. Ciò che piaceè sì il molto; ma il poco èciò che appaga. Chi ha setecrede che un'anfora non lo disseterebbe; e unacoppa lo disseta. Ora ecco la sventura aggiunta del genere umano:l'assetatoperché erede che un'anfora non basti alla sua setesottrae aglialtri assetati tutta l'anforaa cui berrà una coppa sola. Peggio ancora:spezza l'anforaperchéaltri non bevase egli non può bere. Peggio che mai:dopo aver bevuto essosperde per terra il liquore perché agli altri cresca lasete e l'odio. E infinitamente peggio: si uccidono tra loroi sitibondiperché non beva nessuno. Oh! bevete un po' per unostolidie poi fate diriempire la buona anfora per quelli che verranno!

Per questoche io dico che la poca gioia che può averl'uomo è nel pocoio sonocaro Adolfosincero. Mi fu dato di provare ilpregio del pocosì per essermi stato da altri rubato tuttosì per avere ioricuperatodi quel pocoun pocolino. «Il pregio del poco» ho detto... Ma inverità che cosa si può pretender di più pocoche d'essere lasciatofin chepiaccia alla naturacon chi vi ha messo al mondo? Basta: parliamo d'altro.Dunque del poco che mi fu sottrattoho poi ricuperato un pochino. E ne mostrocome è giustoun pochino di gioia. Sono dunque sinceroquando parlo delladelizia che c'èa vivere in una casa pulitasebben poveraad assidersiavanti una tovaglia di bucatosebben grossaa coltivare qualche fioreasentir cantare gli uccelli... Ma questa sincerità si chiamadai malati distoria letterariaArcadia. Io sono (. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . .) un arcade. La miaoltre che finzione sarebbeanche sdolcinatura e mascolinaturadestinata a produrrese non si castiga atempogli efftti più deleteri nell'organismo nazionale. Consimilichiedo ioa quelli che ha prodotti nel Giappone la contemplazione ingenua degli uccelli edei fiori? la predilezione per la piccola casa e il piccolo orto e il semplice epuro tatami? Sciocchi! Io non credo troppo nell'efficacia della poesiaepoco spero in quella della mia; ma se un'efficacia ha da esseresarà diconforto e di esaltazione e di perseveranza e di serenità. Sarà di forza;perché forza ci ho messonon avendo nel mio esseresemplificato dallasventurase non forzada metterci; forza di poca vistabensìe di pocosuonoperchésenza gale e senza fanfareè non altro che forza.

Dunquenemmeno allora io era chiuso in un «giardinosolitario»sebbene fossi molto segregato e lontano e oscuro. Quando michiamaste tra quelle «energie militanti» tu e Gabriele d'Annunzio.

O mio fratellominore e maggioreGabriele!

Già sette anni prima Gabriele aveva scrittointorno adalcuni miei sonettiparole di gran lode. Già entrando nella mia Romagnaacavallocol suo reggimentocantava (e lo diceva al pubblico italiano) certimiei versi:

 

Romagna solatìadolce paese!

 

Il giovinettopieno di grazia e di gloriasi rivolgeva ognimomento dalla sua via fiorita e luminosaper trarre dall'ombra e dal deserto edal silenzio esìdalla sua tristezzail fratello maggiore e minore. Ionella irrequietezza della vitaho potuto talvolta dimenticare quel gestogentile del fanciullo prodigioso; ma ci sono tornato susempreammirando eamando. Ci torno suorapiù che mai gratoora che raccolgo e a teo Adolfore del CONVITOconsacro questi poemidei quali i primi comparvero nel CONVITOe piacquero a lui. Piaceranno agli altri? Giova sperare. O asvranno la sorted'un altro mio scritto convivialedella Minerva Oscurache poi generòaltri due volumiSotto il Velame e La Mirabile Visionee ancorauna Prolusione al Paradisoe altri ancora ne creerà? Non mi dorrebbetroppo se questi Poemi avessero la sorte di quei volumi. Essi furono derisi edepressioltraggiati e calunniatima vivranno. Io morrò; quelli no. Cosìcredocosì so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra genteDantela additerà ai suoi figli.

Prima di quel giornoche verrà tanto prima per meche pertee per Gabrielenon vorremo fruire il CONVITOfacendo l'ultimo dedodici libri? Narreremo in esso ciò che sperammo e ciò che sognammoe ciòche seminammo e ciò che mietemmoe ciò che lasciamo e ciò che abbandoniamo.O Adolfotu sarai (non parlo di Gabrieleché egli s'è beato) più lieto omen triste di me! Sai perché? Il perché è in questo tuo libro. Leggi «IVECCHI DI CEO». Tutti e due lasciano la vita assai sereni: ma uno piùl'altro meno. Questi non ha in casacome messe della sua vitase non qualchecorona istmia o nemead'appio secco e d'appio verde (oh! secco ormai anchequesto!). L'altroe ha di codeste ghirlandee ha figli dei figli. Tu seiquest'ultimoo Adolfo; tu sei Panthide che ebbe il dono dalle Chariti!

 

Pisa3O giugno del 19O4.

 

GIOVANNI PASCOLI

 

 

SOLON

 

Triste il convito senza cantocome

tempio senza votivo oro di doni;

ché questo è bello: attendere al cantore

che nella voce ha l'eco dell'Ignoto.

Oh! nullaio dicoè bello piùche udire

un buon cantoreplacidiseduti

l'un presso l'altroavanti mense piene

di pani biondi e di fumanti carni

mentre il fanciullo dal cratere attinge

vinoe lo porta e versa nelle coppe;

e dire in tanto grazïosi detti

mentre la cetra inalza il suo sacro inno;

o dell'auleta queruloche piange

goderepoi che ti si muta in cuore

il suo dolore in tua felicità.

- Solondicesti un giorno tu: Beato

chi amachi cavalli ha solidunghi

cani da predaun ospite lontano.

Ora te né lontano ospite giova

négià vecchioi bei cani né cavalli

di solid'unghiané l'amoreo savio.

Te la coppa ora giova: ora tu lodi

più vecchio il vino e più novello il canto.

E novelle al Pireocon la bonaccia

prima e co' primi stormidue canzoni

oltremarine giunsero. Le reca

una donna d'Eresso - Apri: rispose;

alla rondineo Phocoapri la porta. -

Erano le Anthesterïe: s'apriva

il fumeo doglio e si saggiava il vino.

Entròcol lume della primavera

e con l'alito salso dell'Egeo

la cantatrice. Ella sapea due canti:

l'unod'amorel'altro era di morte.

Entrò pensosa; e Phoco le porgeva

uno sgabello d'auree borchie ornato

ed una coppa. Ella sedéreggendo

la risonante pèctide; ne strinse

tacita intorno ai còllabi le corde;

tentò le corde fremebondee disse:

Splende al plenilunïo l'orto; il melo

trema appena d'un tremolio d'argento...

Nei lontani monti color di cielo

sibila il vento.

Mugghia il ventostrepita tra le forre

su le quercie gettati... Il mio non sembra

che un tremorema è l'amoree corre

spossa le membra!

M'è lontano dalle ricciute chiome

quanto il sole; sìma mi giunge al cuore

come il sole: belloma bello come

sole che muore.

Dileguare! e altro non voglio: voglio

farmi chiarità che da lui si effonda.

Scoglio estremo della gran lucescoglio

su la grande onda

dolce è da te scendere dove è pace:

scende il sole nell'infinito mare;

trema e scende la chiarità seguace

crepuscolare.

La Morte è questa! il vecchio esclamò. Questo

ella risposeèospitel'Amore.

Tentò le corde fremebondee disse:

Togli il pianto. È colpa! Sei del poeta

nella casatu. Chi dirà che fui?

Piangi il morto atleta: beltà d'atleta

muore con lui.

Muore la virtù dell'eroe che il cocchio

spinge urlando tra le nemiche schiere;

muore il senosìdi Rhodòpil'occhio

del timoniere;

ma non muore il canto che tra il tintinno

della pèctide apre il candor dell'ale.

E il poeta fin che non muoia l'inno

viveimmortale

poi che l'inno (diano le rosee dita

pace al peploa noi non s'addice il lutto)

è la nostra forza e beltàla vita

l'animatutto!

E chi voglia me rivederetocchi

queste cordecanti un mio canto: in quella

tutta rose rimireranno gli occhi

Saffo la bella.

Questo era il canto della Morte; e il vecchio

Solon qui disse: Ch'io l'imparie muoia.

 

 

IL CIECO DI CHIO

 

O Deliàso gracile rampollo

di palmaai piedi sorto su del Cyntho

alla corrente del canoro Inopo;

figlia di Palma; di qual dono io mai

posso bearti il giovanetto cuore?

Ché all'invito de' giovani scotendo

gl'indifferenti riccioli del capo

gioia t'hai fatto del vegliardo grigio

cui poter falla e desiderio avanza.

E lui su le me lievi orme adducevi

all'opaca radura ed al giaciglio

delle stridule fogliein mezzo ai pini

sonanti un fresco brulichìo di pioggia

presso la salsa musica del mare.

Né già la bianca tua beltà celasti

a gli occhi della sua memore mano:

non vista ad altriche a lui cieco eforse

al solitario tacito alcïone.

O Deliàse già finì la gara

de' tunicati Iàoni: già tace

il vostro corogrande meraviglia

in cui nessuna di te meglio scosse

i procellosi crotali d'argento.

Ed il nocchiero su la nave nera

l'albero drizzaed in su trae le pietre

le gravi pietre su cui dondolando

dorme la nave nel loquace porto.

Ora un nocchiero addimandai: Nocchiero

vago per l'onde come smergo ombroso

dài ch'alla nave il pio cantore ascenda?

cieco uomoe vive nella scabra Chio.

Così te veda un ospite all'approdo.

Tanto io gli dissi. Egli assentì; ché grande

è del cantoreben che nudo e cieco

la grazia in uno ardor di ventiin una

ai cuori alati ritrosia di calma.

E di qual donoo Deliàspartendo

né so per dovesu la nave nera

posso bearti il giovanetto cuore?

Ché non possiedofuor della bisaccia

laceranullae dell'eburnea cetra.

E il cantoindustre che pur sianon m'offre

se non un colmo calice ed un tocco

di pingue verro eterminato il canto

una lunga nel cuore eco di gioia.

Io cieco vo lungo l'alterna voce

del grigio mare; sotto un pino io dormo

dai pomi avari: se non se talora

m'annunzïòper luoghi solistalle

di mandrïani un subito latrato;

omentre erravo tra la neve e il vento

la vampa da un aperto uscio improvvisa

nella sua casa mi svelò la donna

che fila nel chiaror del focolare.

Pur non già nulla dar non puòsì molto

il cieco aedo; e quale a me tu dono

negato a tuttidella tua bellezza

offristidonna; né maggior potevi;

tale a te l'offroné potrei maggiore.

Cieco non eroe ciò pascea con gli occhi

che rumino ora bove pazïente;

e il fior coglievo delle cosech'ora

nella silenzïosa ombra mi odora.

Era per aspri gioghi il mio cammino

degli uomini vetustiantelunari.

Nacquero sopra le montagne nere

che ancor la luna non correa su quelle:

nacque dopo essie palpitò per loro

gemiti strani. Era un meriggio estivo:

io sentiva negli occhi arsi il barbaglio

della via biancae nell'orecchio un vasto

tintinnìo di cicale ebbre di sole.

Ed ecco io vidi alla mia destra un folto

bosco d'antiche roveriche al giogo

parea del monte salir sucantando

a quando a quando con un improvviso

lancio discorde delle mille braccia.

Entrai nel bosco abbrividendoe molto

con muto labbro venerai le ninfe

non forse audace violassi il musco

mollelambito da' lor molli piedi.

E giunsi a un fonte che gemea solingo

sotto un gran lecciodentro una sonora

conca di scabra pomiceche il pianto

già pianto urgea con grappoli di stille

nuovecaduchie ne traeva un canto

dolceinfinito. Io là m'assisial rezzo.

Poinon so comeun dio mi vinse: presi

l'eburnea cetra e lungamentea prova

col sacro fontepizzicai le corde.

Così scoppiò nel tremulo meriggio

il vario squillo d'un'aerea rissa:

e grande lo stupore era de' lecci

ché grande e chiaro tra la cetra arguta

era l'agonee la vocal fontana.

Ogni voce del fonteogni tintinno

la cava cetra ripetea com'eco;

e due diceva in cuore suo le polle

forse il pastore che pascea non lungi.

Ma tardoal finem'incantai sul giogo

d'orocon gli occhie su le corde mosse

come da un breve anelito; e li chiusi

vinto; e sentii come il frusciare in tanto

di mille cetreche piovea nell'ombra;

e sentii come lontanar tra quello

la meraviglia di dedalee storie

simili a bianche e lunghe viefuggenti

all'ombra d'olmi e di tremuli pioppi:

Allora io vidio Deliàscon gli occhi

l'ultima volta. O Delìàsla dea

vidie la cetra della dea: con fila

sottili e lunghe come strie di pioggia

tessuta in cielo; iridescenti al sole.

E mi parlògravee mi disse: Infante!

qual dio nemico a gareggiar ti spinse

uomo con dea? Chi con gli dei contese

non s'ode ai piedi il balbettìo dei bimbi

reduce. Or vaperò che mite ho il cuore:

voglio che il male ti germogli un bene.

Sarai felice di sentir tu solo

tremando in cuorenella sacra notte

parole degne de' silenzi opachi.

Sarai felice di veder tu solo

non ciò che il volgo vìola con gli occhi

ma delle cose l'ombra lungaimmensa

nel tuo segreto pallido tramonto.

Dissee disparve; eper tentar che feci

le irrequïete palpebrepiù nulla

io vidi delle cose altro che l'ombra

pagofinché non m'apparisti al raggio

della tua voce limpidao fanciulla

di Deloo palma del canoro Inopo

sola tu del mio sogno anche più bella

maggior dell'ombra che di te serpeggia

nel mio segreto pallido tramonto.

Ora a te sola ridirò le storie

meraviglioseche sentii quel giorno

come vie bianche lontanar tra i pioppi.

E quale il tuoche non maggior potevi

tale il mio dononé potrei maggiore;

ché il bene in te qui lasceròcome ape

che pungee il male resterà più grave

grave sol oraal tuo cantorcui diede

la Musa un bene eDeliàsun male!

 

 

LA CETRA D'ACHILLE

 

I

I rele genti degli Achei vestiti

di bronzotuttisìdormian domati

dal molle sonnoe i lor cavalli sciolti

dai giogoavvinti con le briglie ai carri

pasceansoffiandoil bianco orzo e la spelta.

Dormivano i custodi anche de' fuochi

abbandonato il capo sugli scudi

lustrirotondipresso i fuochi accesi

al cui guizzare balenava il rame

dell'armicome nuvolaglia a notte

prima d'un nembo: Domator di tutto

teneva il sonno i Panachei chiomanti

mirabilmentenella notte ch'era

l'ultima notte del Pelide Achille;

e in cuore ognuno lo sapeanel cielo

e nella terrae tutti ora sbuffando:

dalle narici il rauco sonnoin sogno

lo vedean fare un grande arco cadendo

e sollevare un vortice di fumo;

ma in sogno senza altro fragor cadeva

simile ad ombra; e senza suonoa un tratto

i cavalli e gli eroi misero un ringhio

acutoi carri scosser via gli aurighi

mentre laggiùsotto Ilioalta e feroce

la bronzea voce si frangead'Achille.

 

II

Dormiansìtutti; e tra il lor muto sonno

giungeva un vasto singhiozzar dal mare.

Piangean le figlie del verace Mare

nel nero Pontol'ancor vivo Achille

lontanech'egli non ne udisse il pianto.

Ed altresìcon improvviso scroscio

ululando montavano alla spiaggia

per dirgli il fato o trarlo a sé; ma in vano:

fuggian con grida e gemiti e singhiozzi

lasciando le lor bianche orme di schiuma.

Ma non le udivabenché destoAchille

desto sol esso; ch'egli empiva intanto

a sé l'orecchio con la cetra arguta

dedalea cetrascelta dalle prede

di Thebe sacra ch'egli avea distrutta.

Orpieno il cuore di quei chiari squilli

non udiva su lui piangere il mare

e non udiva il suo vocale Xantho

parlar com'uomo all'inclito fratello

Folgoreche gli rispondea nitrendo.

L'eroe cantava i morti eroicantava

sésu la cetra già da lui predata.

Avea la spogliasu le membra ignude

d'un lion rosso già da lui raggiunto

irsutalunga sino ai pie' veloci.

 

III

Così le glorie degli eroi consunti

dal rogoe sé con lor cantava Achille

desto sol esso degli Achei chiomanti:

eccoavanti gli stette unocanuto

simile in vista a vecchio dio ramingo.

E gli fu presso e gli baciò le mani

terribili. Sbalzò attonito Achille

sudal suo seggioe il morto lion rosso

gli raspò con le curve unghie i garretti.

E gli volgeva le parole alate:

Vecchiochi sei? donde venuto? Sembri

sìnell'aspetto Primo rema regio

non è il mantello che ti para il vento.

Chi ti fu guida nella notte oscura?

Parlae per filo il tutto narrao vecchio.

E gli parlava rispondendo il vecchio:

Nonon ti sono io resplendido Achille;

un dio felice non mi fu l'auriga:

io da me venni. Tuttianche i custodi

dormono presso il crepitar dei fuochi.

Tu solo vegli; e non udiivenendo

ch'esili stridi dagli eroi sopiti

e che un sommesso brulichio dai morti.

E nella sacra notte a me fu guida

un suonoil suono d'una cetraAchille.

 

IV

Lo guardò scuro e gli rispose Achille:

Tu non m'hai detto il caro nomee donde

vieni e perché. Non forse tu notturno

vienialle navi degli Achei ricurve

per dono grandead esplorareo vecchio?

E gli parlava rispondendo il vecchio:

Io sono aedoo pieveloce Achille

caro ai guerrierinon guerriero io stesso.

Io nacqui sotto la selvosa Placo

in Thebe sacragià da te distrutta.

Da te non vengo a librerarmi un figlio

cui lecchi il sangue un vigile tuo cane;

il figliono; recando qui sul forte

plaustro mulare tripodi e lebeti

e pepli e manti e molto oro nell'arca.

Non a me copianon a te n'è d'uopo;

ché tu sei già del tuo destinoe tutti

lo sannoil cielol'infinito mare

la nera terrae lo sai tu ch'hai dato

ai cari amici le tue prede e i doni

splendidi; ansati tripodicavalli

mulilustranti buoidonne ben cinte

e grigio ferroe reso Ettore al padre

e la tua vita al suo dovere... Oh! rendi

dunque all'aedo la sua cetraAchille!

 

V

Dissee sporgea la mano alla sua cetra

belladedaleama l'argenteo giogo

era dai peli del lion coperto.

E il cuor d'Achillemareggiavacome

il mare in dubbio di spezzar la nave

piccolacurva. E poi parlavae disse:

TE'; riporgendo al pio cantor 'la cetra;

non sì cheurtando nel pulito seggio

non mettessetremandoella uno squillo.

Poi tacquein mano dell'aedoanch'ella.

Allorastandoil pari a un dio Pelide

udì ringhiare i suoi grandi cavalli

intese Xantho favellar com'uomo

e parlar della sua morte al fratello

Folgorche gli rispondea nitrendo.

Allora udì su lui piangere il mare

piangere le figlie del verace Mare

luicosì bellolui così nel fiore;

e molte con un improvviso scroscio

venir per trarlo via con sé; ma in vano.

E vide nella sacra notte il fato

suoche aspettava alle Sinistre Porte

come l'auriga asceso già sul carro

la sferza in pugnoche all'eroe si volge

sopragiungente nel fulgor dell'armi.

 

VI

E il vecchio disse le parole alate:

Lascia ch'io vada senz'indugioe porti

- meco la cetrache non forse il cuore

nero t'inviti a piangeresu questa

cetra di gloriel'ancor vivo Achille.

Lascia che pianga e mare e terra e cielo;

tu no. Non devi inebbriar di canto

tudivo Achillel'animo sereno

che sanon devi a te celare il fato

non che ti volle ma che tu volesti.

Restaci grandeo Peleiade Achille!

Noicanteremo. Noi di te diremo

chesìpiangevima lontano e solo

e che dicevi il tuo dolore all'onde

del mare ed alle nuvole del cielo.

E noi diremo che una dea non vista

a frenar la tua fosca ira veniva

e ti prendea per la criniera rossa

rossa criniera che così sconvolta

poi ti lisciava un'altra dea non vista

nel tuo dolore; e che obbedivi a voci

dell'infinito o cielo o mare: avanti

spingendo con un grande urlo d'auriga

verso la morte l'immortal tuo Xantho.

Disse e disparve nell'ambrosia notte.

 

VII

E stette Achille ad ascoltare i ringhi

de' suoi cavallie più lontano il pianto

delle Nereidie dentro i lor singhiozzi

sentì più tristasì ma più sommessa

la voce della sua cerulea madre.

Anche sentì tra il sonno alto del campo

passar con chiaro tintinnìo la cetra

di cui tentava il pio cantor le corde;

mentre i cavalli sospendeanfremendo

di dirompere il bianco orzo e la spelta.

Passava il canto tra la morte e il sogno:

qualche avvoltoiosorto su dai morti

gli eroi viventi ventilava in fronte.

Lontanò ella sotto il cielo azzurro

e poi vanì. Né più la intese Achille.

Né gli restavaoltre i cavalli e il carro

da guerra e le stellanti armipiù nulla

se non montare sopra i due cavalli

fulgidoin armicome Soleandando

al suo tramonto. Quando udì vicino

un singulto: Briseide su la soglia

stavae piangevala sua dolce schiava.

Ed egli allora si corcò tenendo

lei tra le bracciacon su lor la pelle

del lion rosso; ed aspettò l'aurora.

 

 

LE MEMNONIDI

 

Ecco apparì l'Aurora che la terra

nera toccava con le rosee dita.

 

I

Disse: - Uccidesti il figlio dell'Aurora:

non rivedrai né la sua madre ancora!

E sìt'amavo come un suo fratello.

Tu fulvoei nero; nero sìma bello:

tu come rogo che divampa al vento

ei come rogo che la pioggia ha spento:

Memnone amato! E tu dovevi amare

lui nato in cielo figlio tu del mare!

L'azzurro mare ama la terra nera;

il giorno ardente ama l'opaca sera;

l'operail sonno; ama il dolor la morte...

Va dunqueAchillealle Sinistre Porte!

 

II

Io sì t'amavae ti ricordomolle

della mia guazza la criniera fulva

nella lontana Ftia ricca di zolle:

nei boschiinvasi dall'odor di lauro

del Pelio: lungo lo Sperchèotra l'ulva

pesta dall'ugne del tuo gran Centauro.

Io ti mostrava là su l'alte nevi

i foschi lupi che notturni a zonzo

fiutaron l'antro dove tu giacevi:

e tu gettavi contro loro incauto

la voce ch'ora squilla come bronzo

allor sonava come lidio flauto.

Io ti vedeva predatore impube

correre a piediimmerso nella tua

anima azzurra come in una nube;

iorosseggiandoe con la bianca falce

la luna smortavedevam laggiù

correre un uomo dietro una grande alce.

 

III

E meco c'era Memnoneche un urlo

dal ciel mandava ai piedi tuoi veloci.

Tu li credevi di laggiù le voci

forse della palustre oca o del chiurlo.

Perché t'amava anch'essoil tuo fratello

crepuscolareche poi te protervo

seduto sopra il boccheggiante cervo

circondava de' suoi strilli d'uccello.

Or egli è pietrae ben che nera pietra

il figlio dell'Aurora ha le sue pene

ché quando io sorgoe piangoei dalle verte

rivibra un pianto come suon di cetra...

forse sospesa a un ramoquale io credo

d'udite ancoraqui tra i pini e i cedri

che al primo sbuffo de' miei due polledri

vibrò chiamando il suo perduto aedo.

 

IV

E quando io sorgole Memnonie gralle

fanno lor giochiquali intorno un rogo

non come aurighi con Ferèe cavalle

sbalzano in alto sotto il lieve giogo

con la lucida sferza su le spalle;

e né come unti lottatori ignudi

che si serrano a modo di due travi

e né come aspri pugili coi crudi

cesti allacciati intorno ai pugni gravi;

ma come eroicon l'aste e con gli scudi.

Quasi al fuoco d'un rogoal mio barlume

ecco ogni eroe contro un eroe si slancia:

lottano in mezzo alle rosate schiume

del lagoe il molle becco è la lor lancia

e non ferisce sul brocchier di piume.

Guarda le innocue gralle irrequiete

làcon lo scudo ombelicato e il casco!

negli acquitrini dove voi mietete

lanuginose canne di falasco

per tetto della casa altad'abete.

 

V

Ei piangee vede la mia mano ch'apre

roseadi monte in monteuscì e cancelli;

apretoccando lieve i chiavistelli

alle belanti pecorealle capre;

anche al fanciullo che la verga toglie

curvae si lima i cari occhi col dosso

dell'altra mano: anche al villano scosso

di mezzo ai sogni dall'industre moglie;

anche all'auriga che i cavalli aggioga

al carro asperso ancor del sangue d'ieri

mentre l'eroegià stretti gli stinieri

prende lo scudo per l'argentea soga:

scudo rotondodi lucente elettro

grandecon le cittàcon le capanne

e greggi e mandree corbe d'uva e manne

di spighee un re pei solchicon lo scettro.

 

VI

Ma te non più porterò viadivino

eroesul carrocol rotondo scudo

ch'ha suon di tibiee dolce cantaAI LINO:

dall'altra parte tornerò del cielo

a serae te con altri ignudi ignudo

io parerò tenendo un aureo stelo;

un aureo stelo con in cima un astro;

e parerò le vostre esili vite

come un pastorecon quel mio vincastro:

un gregge d'ombresenza i folti velli

color viola. E per le vie muffite

v'udrò stridire come vipistrelli.

La bianca Rupe tu vedraidov'ogni

luce tramontatu vedrai le Porte

del Sole e il muto popolo dei Sogni.

E giunto alfine sosterai nel Prato

sparso dei gialli fiori della morte

immortalmenteAchilleaffaticato.

 

VII

Dove dirai: Fossi lassù garzone

in terra altruidi povero padrone;

ma pur godessial sole ed alla luna

la dolce vita che ad ognuno è una;

e i miei cavalli fossero giovenchi

che lustro il peloi passi hanno sbilenchi;

e ritrovassinell'uscir dal tetto

per asta dalla lunga ombrail pungetto;

e rimirassinell'uscir dal clatro

per carro dal sonante assel'aratro:

l'aratro pio che cigola e lavora

nella penombra della nuova aurora! -

Dicevae già nel cielo era appassita:

venne il Solee s'alzò l'urlo di guerra.

 

 

ANTÌCLO

E con un urlo rispondeva Antìclo

dentro il cavalloa quell'aerea voce;

se a lui la bocca non empìa col pugno

Odisseoprontogli altri eroi salvando;

e ognun chiamando tuttavia per nome

la voce alata dileguò lontano;

fin ch'all'orecchio degli eroi non giunse

che il loro corto anelito nel buio;

come già primaquando già lì fuori

impallidiva il vasto urlìo del giorno

l'urlìo venato da virginei cori

che udian dietro una nera ombra di sonno;

nel lungo giorno; e poi languìché forse

era già serae forse già sul mare

tremolava la stella Esperoe forse

la luna piena già sorgea dai monti;

ed allora una voce ecco al cavallo

girare attornoche sonava al cuore

come la voce dolce più che niuna

come ad ognuno suona al cuor sol una

 

II

Era la donna amataera la donna

lontanaaccorsain quella ora di morte

da molta ombra di montionda di mari:

sbalzò ciascuno quasi a porre il piede

su l'inverdita soglia della casa.

Ma tutti un cenno di Odisseo contenne:

Antìclono. Poi ch'era forte Antìclo

sìma per forza; e non avea la gloria

loquace a cuorema la casa e l'orto

d'alberi lunghi e il solatìo vigneto

e la sua donna. E come udì la voce

della sua donnaegli sbalzò d'un tratto

su molta onda di mariombra di monti;

udì lei nelle stanze alte il telaio

spinger da séscendere l'ardue scale;

e schiuso il luminoso uscio chiamare

lui che la bocca aprìtuttae vi strinse

il grave pugno di Odisseo Cent'arte;

e sentì nella conca dell'orecchio

sibilar come raffica marina:

Helena! Helena! è la Morteinfante!

 

III

Ma quella voce gli restò nel cuore:;

e quando uscì con gli altri eroi - la luna

piena pendeva in mezzo della notte -

gli nereggiava di grande ira il cuore;

e per tutto egli uccisearsedistrusse.

Gittò nel fuoco i tripodi di bronzo

spinse nel seno alle fanciulle il ferro;

ché non prede voleva; egli voleva

udirtra grida e gemiti e singulti

la voce della sua donna lontana.

Ma era nella sacra Ilio il nemico

di gloria Antìclonon in Arne ancora

fertile d'uvao in Aliarto erboso:

e in un vortice rosso Ilio vaniva

a' piè del plenilunïo sereno.

Morti i guerrierigiù nelle macerie

fumide i Danai ne battean gl'infanti

alle lor navi ne rapian le donne:

e d'Ilio in fiamme al cilestrino mare

dalle Porte al Sigeo bianco di luna

passavano con lunghi ululi i carri.

 

IV

Ma non ancora alle Sinistre Porte

Antìclo eroe dalla città giungeva.

Lì l'auriga attendeva il suo guerriero

insanguinato; e oro e bronzoil carro

e la giovane schiava alto gemente.

Voto era il carrosolo era l'auriga:

legati con le briglie abili al tronco

del caprificoin cui fischiava il vento

i due cavalli battean l'ugne a terra

fiutando il sanguesbalzando alle vampe.

Ma non giungeva Antìclo: egli giaceva

sul nero sanguepresso l'alta casa

di Deifobo. E dentro eravi ancora

fremere d'irastrepere di ferro:

poi cheintorno all'amante ultimoancora

gli eroi venuti con le mille navi

LocriEtoliFoceiDolopiAbanti

contendean ai Troiani Helena Argiva;

tutti per lei si percotean con l'aste

i vestiti di bronzo e i domatori

di cavalli; e le loro astestridendo

rigavano di lunghe ombre le fiamme.

 

V

Ma pensava alla sua donna morendo

Antìclopresso l'atrïo sonoro

dell'alta casa. E divampò la casa

come un gran pino; ed al bagliore Antìclo

vide Lèito eroe sul limitare.

Rapido a nome lo chiamò: gli disse:

Lèito figlio d'Alectryonetrova

nell'alta casa il vincitore Atride

di cui s'ode il feroce urlo di guerra.

Digli che fugge alle mie vene il sangue

sì come il vino ad un cratere infranto.

E digli che per lui muoio e che muoio

per la sua donnaed ho la mia nel cuore.

Che venga la divina Helenae parli

a me la voce della mia lontana:

parli la voce dolce più che niuna

come ad ognuno suona al cuor sol una.

 

VI

Dissee la casa entrò Lèitoe seguiva

tra le fiamme il feroce urlo di guerra

che come tacqueegli trovò l'Atride

poggiato all'asta dalla rossa punta

drittocol piede sopra il suo nemico.

E contro gli sedeva Helena Argiva

tacitasopra l'alto trono d'oro;

e lo sgabello aveva sotto i piedi.

E Lèito disse al vincitore Atride:

Uno mi mandada cui fugge il sangue

sì come il vino da cratere infranto:

Antìcloche muore per teche muore

per la tua donnaed ha la sua nel cuore.

Oh! vada la divina Helenae parli

a lui la voce della sua lontana

la voce dolce forse più che niuna

e come suona forse al cuor sol una.

 

VII

E cosìmentre già moriva Antìclo

veniva a lui con mute orme di sogno

Helena. Ardeva intorno a lei l'incendio

su l'incendio brillava il plenilunio.

Ella passava tacita e serena

come la lunasopra il fuoco e il sangue.

Le fiammeun guizzoal suo passarpiù alto;

spremeano un rivo più sottil le vene.

E scrosciavano l'ultime muraglie

e sonavano gli ultimi singulti.

Stette sul capo al moribondo Antìclo

pensoso della sua donna lontana.

Tacquero allora intorno a lei gli eroi

rauchi di stragee le discinte schiave.

E già la bocca apriva ella a chiamarlo

con la voce lontanacon la voce

della sua donnache per sempre seco

egli nell'infinito Hade portasse;

la rosea bocca apriva già; quand'egli

- No - disse: - voglio ricordar te sola. -

 

IL SONNO DI ODISSEO

 

I

Per nove giornie notte e dìla nave

nera filòché la portava il vento

e il timonieree ne reggeva accorta

la grande mano d'Odisseo le scotte;

nélassoad altri le cedeaché verso

la cara patria lo portava il vento.

Per nove giornie notte e dìla nera

nave filòné l'occhio mai distolse

l'eroecercando l'isola rupestre

tra il cilestrino tremolìo del mare;

pago se prima di morir vedesse

balzarne in aria i vortici del fumo.

Nel decimolà dove era vanito

il nono sole in un barbaglio d'oro

ora gli apparse non sapea che nero:

nuvola o terra? E gli balenò vinto

dall'alba dolce il grave occhio: e lontano

s'immerse il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

II

E venne incontro al volo della nave

eccouna terrae veleggiava azzurra

tra il cilestrino tremolìo del mare;

e con un monte ella prendea del cielo

e giù dal monte spumeggiando i botri

scendean tra i ciuffi dell'irsute stipe;

e ne' suoi poggi apparvero i filari

lunghi di vitied a' suoi piedi i campi

vellosi della nuova erba del grano:

e tutta apparve un'isola rupestre

duranon buona a pascere polledri

ma sì di capre e sì di buoi nutrice:

e qua e là sopra gli aerei picchi

morian nel chiaro dell'aurora i fuochi

de' mandrïani; e qua e là sbalzava

il mattutino vortice del fumo

d'Itacaalfine: ma non già lo vide

notando il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

III

Ed ecco a prua dell'incavata nave

volar parolesimili ad uccelli

con fuggevoli sibili. La nave

radeva allora il picco alto del Corvo

e il ben cerchiato fonte; e se n'udiva

un grufolare fragile di verri;

ed ampio un chiuso si scorgeadi grandi

massi ricinto ed assiepato intorno

di salvatico pero e di prunalbo;

ed il divino mandrïan dei verri

presso la spiaggiadella nera scorza

spogliava con l'aguzza ascia un querciolo

e grandi pali a rinforzare il chiuso

poi ne tagliò coi morsi aspri dell'ascia;

e sì e no tra lo sciacquìo dell'onde

giungeva al mare il roco ansar dei colpi

d'Eumeo fedele: ma non già li udiva

tuffato il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

IV

E già da pruasopra la navea poppa

simili a freccieandavano parole

con fuggevoli fremiti. La nave

era di faccia al porto di Forkyne;

e in capo ad esso si vedea l'olivo

grandefronzutoe presso quello un antro:

l'antro d'affaccendate api sonoro

quando in crateri ed anfore di pietra

filano la soave opra del miele:

e si scorgeva la sassosa strada

della città: si distingueatra il verde

d'acquosi ontanila fontana bianca

e l'ara biancaed una eccelsa casa:

l'eccelsa casa d'Odisseo: già forse

stridea la spola fra la tramae sotto

le stanche dita ricrescea la tela

ampiaimmortale... Oh! non udì né vide

perduto il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

V

E su la navenell'entrare il porto

il peggio vinse: sciolsero i compagni

gli otrie la furia ne fischiò dei venti:

la vela si svoltòsi sbattécome

peplocui donna abbandonò disteso

ad inasprire sopra aereo picco:

eccoe la nave lontanò dal porto;

e un giovinetto stava già nel porto

poggiato all'asta dalla bronzea punta:

e il giovinetto sotto il glauco olivo

stava pensoso; ed un veloce cane

correva intorno a lui scodinzolando:

e il cane dalle volte irrequïete

sostòcon gli occhi all'infinito mare;

e com'ebbe le salse orme fiutate

ululò dietro la fuggente nave:

Argoil suo cane: ma non già l'udiva

tuffato il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

VI

E la nave radeva ora una punta

d'Itaca scabra. E tra due poggi un campo

eraben culto; il campo di Laerte;

del vecchio re; col fertile pometo;

coi peri e meli che Laerte aveva

donati al figlio tuttavia fanciullo;

ché lo seguiva per la vignae questo

chiedeva degli snelli alberi e quello:

tredici peri e dieci meli in fila

stavanobianchi della lor fiorita:

all'ombra d'unoall'ombra del più bianco

era un vecchiopoggiato su la marra:

il vecchiovolto all'infinito mare

dove mugghiava il subito tumulto

limando ai faticati occhi la luce

riguardò dietro la fuggente nave:

era suo padre: ma non già lo vide

notando il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

VII

Ed i venti portarono la nave

nera più lungi. E subito aprì gli occhi

l'eroerapidi aprì gli occhi a vedere

sbalzar dalla sognata Itaca il fumo;

e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso

ben cintoe forse il padre suo nel campo

ben culto: il padre che sopra la marra

appoggiato guardasse la sua nave;

e forse il figlio che poggiato all'asta

la sua nave guardasse: e lo seguiva

certoe intorno correa scodinzolando

Argoil suo cane; e forse la sua casa

la dolce casa ove la fida moglie

già percorreva il garrulo telaio:

guardò: ma vide non sapea che nero

fuggire per il violaceo mare

nuvola o terra? e dileguar lontano

emerso il cuore d'Odisseo dal sonno.

 

 

L'ULTIMO VIAGGIO

 

I

 

LA PALA

Ed il timone al focolar sospese

in Itaca l'Eroe navigatore.

Stanco giungeva da un error terreno

grave ai garrettich'egli avea compiuto

reggendo sopra il grande omero un remo.

Quelli cercava che non sanno il mare

né navi nere dalle rosse prore

e non miste di sale hanno vivande.

E già più lune s'erano consunte

tra scabre rupinel cercare in vano

l'azzurro mare in cui tuffar la luce;

né da gran tempo più sentiva il cielo

l'odor di salema l'odor di verde:

quando gli occorse un altro passeggero

che disse; e il vento che ululò notturno

si dibattevaintorno loroai monti

come orso in una fossa alta caduto:

Uomo stranieroal re tu muovi? Oh! tardo!

Al regià mondo è nel granaio il grano.

Un dio mandò quest'alitoche soffia

anc'oggie ieri ventilò la lolla.

Oggio tarda opravana è la tua pala.

Disse; ma il cuore tutto rise accorto

all'Eroe che pensava le parole

del mortociecodallo scettro d'oro.

Ché cieco ei vedee tutto sa pur morto:

tra gli alti pioppi e i salici infecondi

nella caligoeglibevuto al botro

il sanguedisse: Miseroavrai pace

quando il ben fatto remo della nave

ti sia chiamato un distruttor di paglie.

Ed ora il cuorea quel pensiergli rise

E disse: Uomo terrestreala! non pala!

Ma sia. Ben ora qui fermarla io voglio

nella compatta aridità del suolo.

Un fine ha tutto. In ira a un dio da tempo

io volo foglia a cui s'adira il vento.

E l'altro ancora ad Odisseo parlava:

Chidonde sei degli uomini? venuto

cometra noi? Non già per l'aere brullo

come alcuno dei cigni longicolli

ma scambiando tra loro i due ginocchi.

Parlamie narra senza giri il vero.

 

II

 

L'ALA

E rispose l'Eroe molto vissuto:

Tutto ti narro senza giri il vero.

Sonoa voi sconosciutiuominianch'essi

mortali sìmacome deicelesti

che non coi piedicome i lenti bovi

vannoe con la vicenda dei ginocchi

ma con la spinta delle aeree braccia

come gli uccellied hanno il color d'aria

sotto sévasto. Io vidi viaggiando

sbocciar le stelle fuor del cielo infranto

sotto questi occhie il guidator del Carro

venir con me fischiando ai buoi lontano

e l'auree rote lievi sbalzar sulla

tremola ghiaia della strada azzurra.

Né sempre l'ali noi tra cielo e cielo

battiamo: spesso noi prendiamo il vento:

a mezzo un ringhio acutoper le froge

larghe prendiamo il vano vento folle

che ci conducae con la forte mano

le briglie io reggo per frenarlo al passo.

Ma un dio ce n'odiacome voi la terra

odiache voi sostenta sìma spezza.

Ch'ha tutto un fine. Or tu fa che un torello

dal re mi vengaed un agnello e un verro;

che qui ne onori quell'ignoto iddio.

E l'altro ancora rispondea stupito:

L'ignoto è grandee grande piùse dio.

Or vieni al reche raddolcito ha il cuore

oggiche il grano gli avanzò le corbe.

Così l'eroe divino in una forra

selvosa il remo suo piantòla lieve

ala incrostata dalla salsa gromma.

Al dio sdegnato per il suo Ciclope

egli uccise un torello ed un agnello

e terzo un verro montator di scrofe;

e poi discesee insieme a lui più lune

venneroe l'una dopo l'altra ognuna

ségirando tra roccie aspreconsunse.

L'ultimapiena tremolò sul mare

riscintillantee su la bianca sabbia

piccola e nera gli mostrò la nave

e i suoi compagnich'attendean guardando

a montemuti. Ed ei salpò. Sbalzare

vide ancora le rote auree del Carro

sopra le ghiaie dell'azzurra strada:

rivide il fumo salir surivide

Itaca scabrae la sua grande casa.

Dove il timone al focolar sospese.

 

III

 

LE GRU NOCCHIERE

E un canto allora venne a lui dall'alto

di su le nubidi raminghe gru.

Sospendi al fumo ora il timonee dormi.

Le Gallinelle fuggono lo strale

già d'Orïonee son cadute in mare.

Rincalza su la spiaggia ora la nave

nera con pietreche al ventar non tremi

Eroe; ché sono per soffiare i venti.

L'alleggio della stiva apriche l'acqua

scoli e non faccia poi funghir le doghe

Eroe; ché sono per cader le pioggie.

Sospendi al fumo ora il timonee in casa

tieni all'asciutto i canapi ritorti

ogni armaogni ala della navee dormi.

Ché viene il vernoviene il freddo acuto

che fa nei boschi bubbolar le fiere

che fuggono irte con la coda al ventre:

quando a tre piediil filo della schiena

rotto a metàla grigia testa bassa

il vecchio va sotto la neve bianca;

e il randagio pitocco entra dal fabbro

nella fucina apertae prende sonno

un poco al caldo tra l'odor di bronzo.

Navigatore di cent'artidormi

nell'alta casaose ti piacesolca

ora la terradopo arata l'onda.

Questo era canto che rodeva il cuore

del timoniereche volgea la barra

verso un approdoe tedio avea dell'acqua;

ché passavanoagli uomini gridando

giunto il maltempoventi nevi pioggie

e lo sparire delle stelle buone;

e tra le nubi esse con fermo cuore

gittando rauche grida alla burrasca

andavanoe coi remi battean l'aria.

 

IV

 

LE GRU GUERRIERE

DiceanDormial nocchieroAraal villano

di su le nubile raminghe gru.

Ara: la stanga dell'aratro al giogo

lega dei bovi; ché tu n'haiben d'erbe

saziin capannao figlio di Laerte.

Fatti col cuoio d'un di loroucciso

un paio d'uoseche difenda il freddo

ma prima il dentro addenserai di feltro;

e cucirai coi tendini del bove

pelli de' primi nati dalle capre

che a te dall'acqua parino le spalle;

e su la testa ti porrai la testa

d'un vecchio lupoche ti scaldie i denti

bianchi digrigni tra il nevischio e i venti.

Arare il camponon il mareè tempo

da che nel cielo non si fa vedere

più quel branchetto delle sette stelle.

Sessanta giorni dopo volto il sole

quando ritorni il conduttor del Carro

allor dolce è la brezzail mare è calmo;

brilla Boote a serae sul mattino

tornata già la rondine cinguetta

che il mare è calmo e che dolce è la brezza.

La brezza chiama a sé la velail mare

chiama a sé il remo; e resta qua canoro

il cuculo a parlare al vignaiolo.

Questo era canto che mordeva il cuore

a chi non bovi e sol avea l'aratro;

ch'egli ha bel direPrestami il tuo paro!

Son le faccendeed ora ogni bifolco

seminae poisicuro della fame

ode venti fischiareacque scrosciare

ilare. E intanto essele grumoveano

verso l'Oceanoa guerrain righe lunghe

empiendo il cielo d'un clangor di trombe.

 

V

 

IL REMO CONFITTO

E per nove anni al focolar sedeva

di sua casal'Eroe navigatore:

ché più non gli era alcuno error marino

dal fato ingiunto e alcuno error terrestre.

Sìla vecchiaia gli ammollia le membra

a poco a poco. Ora dovea la morte

fuori del mare giungerglisoave

molto soavee né coi dolci strali

dovea ferirloma fiatar leggiera

sopra la face cui già l'uragano

frustòma fece divampar più forte.

E i popoli felici erano intorno

che il figlionato lungi alle battaglie

savio reggeva in abbondevol pace.

Crescean nel chiuso del fedel porcaio

floridi i verri dalle bianche zanne

e nei ristretti pascoli più tanti

erano i bovi dalle larghe fronti

e tante più dal Nerito le capre

pendean strappando irsuti pruni e stipe

e molto sotto il tetto alto giaceva

orobronzoolezzante olio d'oliva.

Ma raro nella casa era il convito

né più sonava l'ilare tumulto

per il grande atrio umbratile; ché il vecchio

più non bramava terghi di giovenco

né coscie gonfie d'adipedi verro;

amavainvanola fioril vivanda

il dolce lotocui chi mangiaè pago

né altro chiede che brucar del loto.

Così le soglie dell'eccelsa casa

or d'Odissèo dimenticò l'aedo

dai molti cantie il lacero pitocco

che l'un corrompe e l'altro orna il convito.

E il Laertiade ora vivea solingo

fuori del marecome il vecchio remo

scabro di salsa grommache piantato

lungi avea dalle salse aure nel suolo

e strettoloalatra le glebe gravi.

E il grigio capo dell'Eroe tremava

avanti al mormorare della fiamma

come lànella valle solitaria

quel remo al soffio della tramontana.

 

VI

 

IL FUSO AL FUOCO

E per nove anni ogni anno udì la voce

di su le nubidelle gru raminghe

che diceanoArache diceanoDormi;

ed alternando squilli di battaglia

coi remi in lunghe righe battean l'aria:

mentre noi guerreggiamoarao villano;

dormio nocchieronoi veleggeremo.

E il canto il cuore dell'Eroe mangiava

chiuso alle genti come un aratore

cui per sementa mancano i due bovi.

Sedeva al fuocoe la sua vecchia moglie

la bene oprantecontro lui sedeva

tacita. E per le fauci del camino

fuligginoseallo spirar de' venti

umidiardeano fisse le faville;

ardeanlievi sbraciandole faville

sul putre dorso dei lebeti neri.

Su quelle intento si perdea con gli occhi

avvezzi al cielo il corridor del mare.

E distingueva nel sereno cielo

le fuggitive Pleiadi e Boote

tardi cadente e l'Orsaanche nomata

il Carroche lì sempre si rivolge

e sola è sempre del nocchier compagna.

E il fulgido Odisseo dava la vela

al vento ugualee ferree avea le scotte

e i buoni suoi remigatori stanchi

poneano i remi lungo le scalmiere.

La nave con uno schioccar di tela

correa da sé nella stellata notte

e prendean sonno i marinai su i banchi

e lei portava il vento e il timoniere.

L'Eroe giaceva in un'irsuta pelle

sopra copertaa poppa della nave

edietro il caposi fendeva il mare

con lungo scroscio e subiti barbagli.

Egli era fisso in altonelle stelle

ma gli occhi il sonno gli premeasoave

e non sentiva se non sibilare

la brezza nelle sartie e nelli stragli.

E la moglie appoggiata all'altro muro

faceva assiduo sibilare il fuso.

 

VII

 

LA ZATTERA

E gli dicea la veneranda moglie:

Divo Odisseomi sembra oggi quel giorno

che ti rividi. Io ti sedea di contro

quinel mio seggio. Stanco eri di mare

eridivo Odisseosazio di sangue!

Come ora. Muto io ti vedeva al lume

del focolarefissi gli occhi ingiù.

Fissi in giù gli occhipresso la colonna

egli taceva: ché ascoltava il cuore

suo che squittiva come cane in sogno.

E qualche foglia d'ellera sul ciocco

secco crocchiavae d'uno stizzo il vento

uscìa fischiando; ma l'Eroe crocchiare

udiva un po' la zattera compatta

opera sua nell'isola deserta.

Su la decimottava alba la zattera

egli sentì brusca salire al vento

stridulo; e l'uomo su la barca solo

erae sola la barca era sul mare:

soli con qualche errante procellaria.

E di là donde tralucea già l'alba

ora appariva una catena fosca

d'aeree nubie torbide a prua l'onde

picchiavano; ecco e si sventò la vela.

E l'uomo allora udì di contro un canto

di torte conchee divinò che dietro

quelle il nemicoil truce dio del mare

venìa tornando ai suoi cerulei campi.

Lui videe rise il dio con uno schianto

secco di tuono che rimbombò tetro;

e venne. Udiva egli lo sciabordare

delle ruote e il nitrir degli ippocampi.

E volavano al cielo alto le schiume

dalle lor bocche masticanti il morso;

e l'uragano fumido di sghembo

sferzava lor le groppe di serpente.

Soli nel mare erano l'uomo e il nume

e il nume ergeva su l'ondate il torso

largoe scoteva il gran capo; e tra il nembo

folgoreggiava il lucido tridente.

E il Laertiade al cuore suo parlava

ch'altri non v'era; e sotto avea la barra.

VIII

 

LE RONDINI

E per nove anni egli aspettò la morte

che fuor del mare gli dovea soave

giungere; e sìnel decimosu l'alba

giunsero a lui le rondinidal mare.

Egli dormia sul letto traforato

cui sosteneva un ceppo d'oleastro

barbato a terra; e marinai sognava

parlare sparsi per il mare azzurro.

E si destò con nell'orecchio infuso

quel vocìo fioco; ed ascoltò seduto:

erano rondinie sonava intorno

l'umbratile atrio per il lor sussurro.

E si gittò sugli Omeri le pelli

caprineai piedi si legò le dure

uose bovine: e su la testa il lupo

facea nell'ombra biancheggiar le zanne.

E piano uscì dal talamonon forse

udisse il lieve cigolio la moglie;

ma lei teneva un sonno altodivino

molto soavesimile alla morte.

E il timone staccò dal focolare

affumicatoe prese una bipenne.

Ma non moveva il molto accorto al mare

subitosì per colli irti di quercie

per un vïotterello asproe mortali

trovò ben pochi per la via deserta;

e disse a un mandriano segaligno

che per un pioppo secco era la scure;

e disse ad una riccioluta ancella

che per uno stabbiolo era il timone:

così parlava il tessitor d'inganni

e non senz'ali era la sua parola.

E poi soletto deviò volgendo

l'astuto viso al fresco alito salso.

Le quercie ai piedi gli spargean le foglie

roggie che scricchiolavano al suo passo.

Gemmava il ficobiancheggiava il pruno

e il pero avea ne' rosei bocci il fiore.

E di su l'alto Nerito il cuculo

contava arguto il su e giù de l'onde.

E già l'Eroe sentiva sotto i piedi

non più le foglie ma scrosciar la sabbia;

né più pruni fioritima vedeva

i giunchi scabri per i bianchi nicchi;

e infine apparve avanti al mare azzurro

l'Eroe vegliardo col timone in collo

e la bipenne; e l'inquieto mare

mare infinitofragoroso mare

su la duna lassù lo riconobbe

col riso innumerevole dell'onde.

 

IX

 

IL PESCATORE

Ma lui vedendoecco di subito una

rondine deviò con uno strillo.

Ch'ella tornava. Ora Odisseo con gli occhi

cercava tutto il grigio lido curvo

s'egli vedesse la sua nave in secco.

Ma non la vide; e vide un uomoun vecchio

di triti pannichino su la sabbia

raspare dove boccheggiava il mare

alternamente. A lui fu soprae disse:

Abbiamo nullao pescator di rena?

Ben vidierrando su la nave nera

uomo seduto in uno scoglio aguzzo

reggere un filo pendulo sul flutto;

ma il lungo filo tratto giù dal piombo

porta ai pesci un adunco amo di bronzo

che sì li uncina; e ne schermisce il morso

un liscio cerchio di bovino corno.

Ché l'uomoquando è roso dalla fame

mangia anche il sacro pesce che la carne

cruda divora. Io vidianzimortali

gittar le reti dalle curve navi

sempre alïando sui pescosi gorghi

come le folaghe e gli smerghi ombrosi.

E vidi i pesci nella grigia sabbia

avvoltolarsiper desìo dell'acqua

versati fuori della rete a molte

maglie; e morire luccicando al sole.

Ma non vidi senz'amo e senza rete

niuno mai fare tali umide prede

o vecchioe niuno farsi mai vivanda

di tali scabre chiocciole dell'acqua

che indosso hanno la naveoppur dei granchi

che indosso hanno l'incudine dei fabbri.

E il malvestito al vecchio Eroe rispose:

Tristo il mendico che al convito sdegna

cibo che lo scettrato re gli getta

sia tibia ossuta od anche pingue ventre.

Ché il Tuttobuonoha tristo figlio: il Niente.

Prendo ciò che il mio grande ospite m'offre

che donacupo brontolando in cuore

ma dona: il mare fulgido e canoro

ch'è sordo in veroma più sordo è l'uomo.

Or al mendico il vecchio Eroe rispose:

O non ha la rupestre Itaca un buono

suo re ch'ha in serbo molto bronzo e oro?

che verri impinguanegli stabbie capre?

cui molto odora nei canestri il pane?

Non forse il senno d'Odisseo qui regge

che molto erròmolto in suo cuor sofferse?

e fu pitocco e malvestito anch'esso.

Non sai la casa dal sublime tetto

del Laertiade fulgido Odisseo?

 

X

 

LA CONCHIGLIA

Il malvestito non volgeva il capo

dal mare alternoed al ricurvo orecchio

teneva un'aspra tortile conchiglia

come ascoltasse. Or all'Eroe rispose:

O Laertiade fulgido Odisseo

so la tua casa. Ma non io pitocco

querulo sonopoi che fui canoro

eroemaestro io solo a me. Trovai

sparsi nel cuore gl'infiniti canti.

A te cantaidivo Odisseoda quando

pieno di morti fu l'umbratile atrio

simili a pesci quali il pescatore

lasciò morire luccicando al sole.

E vedo ancor le schiave moriture

terger con acqua e con porose spugne

il sanguee molto era il singulto e il grido.

A te cantavoe tu bevendo il vino

cheto ascoltavi. E poi t'increbbe il detto

minor del fatto. Ascolto or io l'aedo

soloin silenzio. Ché gittai la cetra

io. La raccolse con la mano esperta

solo di scotte un marinaioun vecchio

dagli occhi rossi. Or chi la tocca? Il vento.

Or all'Aedo il vecchio Eroe rispose:

Terpiade Femioe me vecchiezza offese

e te: ché tolse ad ambedue piacere

ciò che già piacque. Ma non mai che nuova

non mi paresse la canzon più nuova

di Femioo Femio; più nuova e più bella:

m'erano vecchie d'Odisseo le gesta.

Sonno è la vita quando è già vissuta:

sonno; ché ciò che non è tuttoè nulla.

Iodesto alfine nella patria terra

ero com'uomo che nella novella

alba sognòné sa qual sognoe pensa

che molto è dolce a ripensar qual era.

Or io mi voglio rituffar nel sonno

s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno.

Tu verrai meco. Ma mi narra il vero:

qual canto ascoltidi qual dolce aedo?

Ch'io non sonella scabra isolache altri

abbia nel cuore inseminati i canti.

E il vecchio Aedo al vecchio Eroe rispose:

Questodi questo. Un nicchio vileun lungo

tortile nicchioaspro di fuoriazzurro

di dentroe purononEroepiù grande

del nostro orecchio; e tutto ha dentro il mare

con le burrasche e le ritrose calme

coi venti acuti e il ciangottìo dell'acque.

Una conchigliabreveperché l'oda

il breve orecchioma che il tutto v'oda;

tale è l'Aedo. Pure a te non piacque.

Con un sorriso il vecchio Eroe rispose:

Terpiade Femioassai più grande è il mare!

 

XI

 

LA NAVE IN SECCO

E il vecchio Aedo e il vecchio Eroe movendo

seguian la spiaggia del sonante mare

molto pensandoe làsul curvo lido

piccola e neraapparve lor la nave.

Vedean la poppae n'era lunga l'ombra

sopra la sabbia; né molt'alto il sole.

E sopra lei bianchi tra mare e cielo

galleggiavano striduli gabbiani.

E vide l'occhio dell'Eroe che fresca

era la pece: e vide che le pietre

giaceano in parteché placato il vento

già non faceva più brandir la nave;

e vide in giro dagli scalmi acuti

pender gli stroppi di bovino cuoio;

e vide dal righino alto di poppa

sporger le pale di ben fatti remi.

Gli rise il cuorepoi che pronta al corso

era la nave; e le moveva intorno

come al carro di guerra agile auriga

prima di addurre i due cavalli al giogo.

E venuto alla prua rossa di minio

sopra la sabbia vide assisi in cerchio

i suoi compagni tutti volti al mare

tacitamente; e si godeano il sole

e la primaverile brezza arguta

s'udian fischiare nelle bianche barbe.

Sedean come per uso i longiremi

vecchi compagni d'Odisseo sul lido

e da dieci anni lo attendean sul mare

col tempo bello e con la nuova aurora.

E veduta la rondinele donne

recavano alla nave alte sul capo

l'anfore piene di fiammante vino

e pieni d'orzo triturato gli otri.

E prima che la nuova alba spargesse

le rose in cieloessi veniano al mare

i longiremi d'Odisseo compagni

reggendo sopra il forte omero i remi

ognuno il suo. Poi su la rena assisi

stavanosotto la purpurea prora

con gli occhi rossi a numerar le ondate

ad ascoltarsi il vento nelle barbe

ad ascoltare striduli gabbiani

cantare in mare marinai lontani.

Poi quando il sole si tuffava e quando

sopra venia l'oscuritàciascuno

prendeva il remoed alle sparse case

tornavan muti per le strade ombrate.

 

XII

 

IL TIMONE

Ed eccoappena il vecchio Eroe comparve

sorsero tuttifermi in lui con gli occhi.

Come quando nel verno ispido i bovi

giaccionoavvintiinnanzi al lor presepe;

sdraiati a terra ruminano il pasto

poveromentre frusciano l'acquate;

se con un fascio d'odoroso fieno

viene il bifolcosorgonopur lenta-

mentené gli occhi stolgono dal fascio:

così sorsero i vecchima nessuno

gli andavastretto da pudorpiù presso.

Ed eglisotto il teschio irto del lupo

così parlò tra lo sciacquìo del mare:

Compagniudite ciò che il cuor mi chiede

sino da quando ritornai per sempre.

Per sempre? chieseeNorispose il cuore.

Tornareei volle; terminarnon vuole.

Si dessegiunti alla lor selvaai remi

barbàre in terra e verzicare abeti!

Ma no! Né può la nera nave al fischio

del vento dar la tonda ombra di pino.

E pur non vuole il rosichìo del tarlo

ma l'ondatama il vento e l'uragano.

Anch'io la nube voglioe non il fumo;

il ventoe non il sibilo del fuso

non l'odïoso fuoco che sornacchia

ma il cielo e il mare che risplende e canta.

Compagnicome il nostro mare io sono

ch'è bianco all'orloma cilestro in fondo.

Io non so chelasciaiquando alla fune

diedilo stolto che pur fuila scure;

nell'antro a mare ombrato da un gran lauro

nei prati molli di viola e d'appio

o dove erano cani d'oro a guardia

immortalmentedella grande casa

e dove uomini in forma di leoni

battean le lunghe code in veder noi

o non so dove. E vi ritorno. Io vedo

che ciò che feci è già minor del vero.

Voi lo sapeteche portaste al lido

negli otri l'orzo trituratoe il vino

color di fiamma nel ben chiuso doglio

che l'uno è sangue e l'altro a noi midollo.

E spalmaste la pece alla carena

ch'è come l'olio per l'ignudo atleta;

e portaste le gomene che serpi

dormono in groppo o sibilano ai venti;

e toglieste le pietreanche portaste

l'aerea vela; alla dormente nave

che sempre sogna nel giacere in secco

portaste ognun la vostra ala di remo;

e ora dunque alla ben fatta nave

che manca piùvecchi compagni? Al mare

la vecchia nave: amiciecco il timone.

Così parlò tra il sussurrìo dell'onde.

 

XIII

 

LA PARTENZA

Ed ecco a tutti colorirsi il cuore

dell'azzurro color di lontananza;

e vi scorsero l'ombra del Ciclope

e v'udirono il canto della Maga:

l'uno parava sufolando al monte

pecore tantequante sono l'onde;

l'altra tessea cantando l'immortale

sua tela così grande come il mare.

E tutti al mare trassero la nave

su travi tondecome su le ruote;

e avvinsero gli ormeggi ad un lentisco

che verzicava sopra un erto scoglio;

e già salitoil vecchio Eroe nell'occhio

fece passar la barra del timone;

e stette in piedi sopra la pedagna.

Era seduto presso lui l'Aedo.

E con un cenno fece ai remiganti

salir la nave ed impugnare il remo.

Egli tagliò la fune con la scure.

E cantava un cuculo tra le fronde

cantava nella vigna un potatore

passava un gregge lungo su la rena

con incessante gemere d'agnelli

ricciute donne in lavatoi perenni

batteano a gara i panni alto cianciando

e dalle case d'Itaca rupestre

balzava in alto il fumo mattutino.

E i marinai seduti alle scalmiere

facean coi remi biancheggiar il flutto.

E Femio vide sopra un alto groppo

di cavi attorti la vocal sua cetra

la cetra ch'egli avea gittatae un vecchio

dagli occhi rossi lieto avea raccolta

e portata alla naveai suoi compagni;

ed era a tuttil'aurea cetraa cuore

come a bambino infante un rondinotto

mortoche così morto egli carezza

lieve con dita inabili e gli parla

e teme e spera che gli prenda il volo.

E Femio prese la sua cetrae lieve

la toccòpoiforte intonò la voga

ai remiganti. E quell'arguto squillo

svegliò nel cuore immemore dei vecchi

canti sopiti; e curvi sopra i remi

cantarono con rauche esili voci.

- Ecco la rondine! Ecco la rondine! Apri!

ch'ella ti porta il bel tempoi belli anni.

È nera sopraed il suo petto è bianco.

È venuta da uno che può tanto.

Oh! apriti da teuscio di casa

ch'entri costì la pace e l'abbondanza

e il vino dentro il doglio da sé vada

e il pane d'orzo empia da sé la madia.

Uno anc'a noicol sesamopuoi darne!

Prestoché non siam qui per albergare.

Apriché sto su l'uscio a piedi nudi!

Apriché non siam vecchi ma fanciulli! -

 

XIV

 

IL PITOCCO

Cantavano; e il lor canto era fanciullo

dei tempi andati; non sapean che quello.

E nella stiva in cui giaceva immerso

nel dolce sonnosi stirò le braccia

e si sfregò le palpebre coi pugni

Iroil pitocco. E niuno lo sapeva

laggiùqual grosso baco che si chiude

in un irsuto bozzolo lanoso

forse a dormire. Ché solea nel verno

lì nella nave d'Odisseo dormire

se lo cacciava dalla calda stalla

l'uomo bifolcoo s'ei temeva i cani

del pecoraio. Nella buona estate

dormia sotto le stelle alla rugiada.

Ora quivi obliava la vecchiaia trista

e la fame; quando il suono e il canto

lo destò. Dentro gli ondeggiava il cuore:

Non odo il suono della cetra arguta?

Dunque non era sogno il mioche or ora

portavo ai prociai proci mortiun messo:

ed ecco nell'opaco atrio la cetra

udivoe le lor voci esili e rauche.

Invero udiva il tintinnio tuttora

e il canto fioco tra il fragor dell'onde

qual di querule querule ranelle

per un'acquataquando ancor c'è il sole.

E tra sé favellava Ito il pitocco:

O son presso ad un vero atrio di vivi?

e forse alcuno mi tirò pel piede

sino al cortilepoi che la mascella

sotto l'orecchio mi fiaccò col pugno?

Come altra voltache Odisseo divino

lottò con Iromalvestiti entrambi.

Così pensando si rizzò sui piedi

e su le manie gli fiottava il capo

e movendo traballava come ebbro

di molto vino; e ad Odisseo comparve

nuotando a vuotoed ai remigatori

terribile. Ecco e s'interruppe il canto

e i remi alzati non ripreser l'acqua

e la nave da prua si drizzòcome

cavallo indomitoe lanciò supino

a piè di Femio e d'Odisseo seduti

Iro il pitocco. E lo conobbe ognuno

quandoabbrancati i lor ginocchisorse

inginocchionie gli grondava il sangue

giù per il mento dalle labbra e il naso.

E un dolce riso si levò di tutti

altoinfinito. Ed egli allor comprese

e vide dileguare Itacae vide

sparir le caseonde balzava il fumo:

e le due coscie si percosse e pianse.

E sorridendo il vecchio Eroe gli disse:

Soffri. Hai qui tetto e lettoe orzo e vino.

Sii nella nave il dispensier del cibo

e bevi e mangia e dormiIro non-Iro.

 

XV

 

LA PROCELLA

E sopra il flutto nove dì la nave

corse sospinta dal remeggio alato

e notte e giornoché Odisseo due schiere

dinumerò degl'incliti compagni;

e l'una al sonno e l'altra era alla voga.

Nel decimo l'aurora mattiniera

a un lieve vento dispergea le rose.

Ei dalla scassa l'albero d'abete

levòlo congegnò dentro la mastra

e con drizze di cuoio alzò la vela

ben tortoe saldi avvinse alle caviglie

di prua gli straglima di poppa i bracci.

E il vento urtò la vela in mezzoe il flutto

rumoreggiava intorno alla carena.

E legarono allora anche le scotte

lungo la nave che correa veloce:

e pose in mezzo un'anfora di vino

Iro il pitoccoed arrancando intorno

lo ministrava ai marinai seduti;

e sorse un riso. E nove dì sul flutto

li resse in corsa il vento e il timoniere.

Nel decimo tra nubi era l'aurora

e venne notteed una aspra procella

tre quattro strappi fece nella vela;

e il Laertiade ammainò la vela

e disse a tutti di gettarsi ai remi;

ed essi curvi sopra sé di forza

remigavano. E nove dì sbalzati

eran dai flutti e da funesti venti.

Infine i venti rappaciati e i flutti

sul far di seravidero una spiaggia.

A quella spinse il vecchio Eroe la nave

in un seno tranquillo come un letto.

E domati da sonno e da stanchezza

dormian sul lidoove batteva l'onda.

Ma non dormiva egliOdisseopur vinto

dalla stanchezza. Ché pensava in cuore

d'essere giunto all'isola di Circe:

vedea la casa di pulite pietre

come in un sognoe sorgere leoni

lentie le rosse bocche allo sbadiglio

apriree un poco già scodinzolare;

e risonava il grande atrio del canto

di tessitrice. Ora Odisseo parlava:

Terpiade Femiodormi? Odimi: il sogno

dolce e dimenticato ecco io risogno!

Era l'amore; ch'ora mi sommuove

come procella omai finitail cuore.

Diceva; e nella notte alta e serena

dormiva il ventoe vi sorgea la falce

su macchie e selvedella bianca luna

già presso al finee s'effondea l'olezzo

di grandi aperti calici di fiori

non mai veduti. Ed il gran mare ancora

si ricordavae con le lunghe ondate

bianche di schiuma singhiozzava al lido.

 

 

XVI

 

L'ISOLA EEA

E con la luce rosea dell'aurora

s'avvidech'era l'isola di Circe.

E disse a Femioal molto caro Aedo:

Terpiade Femiovieni a me compagno

con la tua cetrach'ella oda il tuo canto

mortalee tu l'eterno inno ne apprenda.

E disse ad Irodispensier del cibo:

Con gli altri presso il grigio mar tu resta

e mangia e bevich'ella non ti batta

con la sua vergae n'abbi poi la ghianda

per ciboe piangasgretolando il cibo

con altra voceo Iro non-più-Iro.

Così diceva sorridendoe mosse

col dolce Aedoper le macchie e i boschi

e vide il passo donde l'alto cervo

d'arboree corna era disceso a bere:

Ma non vide la casa alta di Circe.

Or a lui disse il molto caro Aedo:

C'è addietro. Una tempesta è il desiderio

ch'agli occhi è nube quando ai piedi è vento.

Ma il luogo egli conobbeove gli occorse

il dio che salvae riconobbe il poggio

donde strappò la buona erbache nera

ha la radicee come latte il fiore.

E non vide la casa alta di Circe.

Or a lui disse il molto caro Aedo:

C'è innanzi. La vecchiezza è una gran calma

che molto stancama non molto avanza.

E proseguì pei monti e per le valli

e selve e boschiattento s'egli udisse

lunghi sbadigli di leonidésti

al lor passaggioo l'immortal canzone

di tessitricedella dea vocale.

E nulla udì nell'isola deserta

e nulla vide; e si tuffava il sole

e la stellata oscurità discese.

E l'Eroe disse al molto caro Aedo:

Troppo nel cielo sono alte le stelle

perché la strada io possa ormai vedere.

Or qui dormiamoed assai caldo il letto

a noi facciamo; ché risorto è il vento.

Dissee ambedue si giacquero tra molte

foglie caduteche ammucchiate al tronco

di vecchie quercie aveva la procella;

e parvero nel mucchioessidue tizzi

vecchiriposti con un po' di fuoco

sotto la grigia cenere infeconda.

E sopra loro alta stormìa la selva.

Ed ecco il cuore dell'Eroe leoni

udì ruggire. Avean dormito il giorno

certoe l'eccelsa casa era vicina.

Invero intese anche la voce arguta

in lontananzadella deachesola

non prendea sonno e ancor tessea notturna.

Né prendea sonno egliOdisseoma spesso

si volgea su le foglie stridule aspre.

 

 

XVII

 

L'AMORE

E con la luce rosea dell'aurora

non udì più ruggito di leoni

che stanchi alfine di vegliarcol muso

dormian disteso su le lunghe zampe.

Dormiva anch'ellaallo smorir dell'alba

pallida e scinta sopra il noto letto.

E il vecchio Eroe parlava al vecchio Aedo:

Prenda ciascuno una sua via: ch'è meglio.

Ma diamo un segno; con la cetraAedo

tuche ritrova pur da lungi il cuore.

Ma s'io ritrovi ciò che il cuor mi vuole

ti getto allora un alalà di guerra

quale gettavo nella mischia orrenda

eroe di bronzo sopra i morti ignudi

io; che il cuore lo intenda anche da lungi.

Dissee taceva dei leoni uditi

nell'alta nottee della dea canora.

E prese ognuno la sua via diversa

per macchie e boschie monti e vallie nulla

udì l'Eroese non ruggir le quercie

a qualche rara rafficae cantare

lontan lontano eternamente il mare.

E non vide la casané i leoni

dormir col muso su le lunghe zampe

né la sua dea. Ma declinava il sole

e tutte già s'ombravano le strade.

E mise allora un alalà di guerra

per ritrovare il vecchio Aedoalmeno;

e porse attento ad ogni aura l'orecchio

se udisse almeno della cetra il canto;

e sìl'udì; traendo a leil'udiva

sempre più mestasempre più soave

cantar l'amore che dormia nel cuore

e che destato solo allor ti muore.

La udì più pressoe non la videe vide

nel folto mucchio delle foglie secche

morto l'Aedo; e forse oramovendo

pel cammino invisibiletra i pioppi

e i salici che gettano il lor frutto

toccava ancora con le morte dita

l'eburnea cetra: così mesto il canto

n'erae così lontano e così vano.

Ma era in altoa un ramo della quercia

la cetra argutaove l'avea sospesa

Femiomorendoa che l'Eroe chiamasse

brillando al sole o tintinnando al vento:

al vento che scotea gli alberial vento

che portava il singulto ermo del mare.

E l'Eroe piansee s'avviò notturno

alla sua naveabbandonando morto

il dolce Aedosopra cui moveva

le foglie secche e l'aurea cetra il vento.

 

XVIII

 

L'ISOLA DELLE CAPRE

Indi più lungi navigòpiù triste

E corse i flutti nove di la nave

or col remeggio or con la bianca vela.

E giunse alfine all'isola selvaggia

ch'è senza genti e capre sole alleva.

E qui vinti da sonno e da stanchezza

dormian sul lido a cui batteva l'onda.

Ma con la luce rosea dell'aurora

vide Odisseo la terra dei Ciclopi

non presso o lungie gli sovvenne il vanto

ch'ei riportò con la sua forza e il senno

del mangiatore d'uomini gigante.

Ed oblioso egli cercò l'Aedo

per dire a lui: Terpiade Femioil sogno

dolce e dimenticato io lo risogno:

era la gloria... Ma il vocale Aedo

dormia sotto le stridule aspre foglie

e la sua tetra là cantava al vento

il dolce amore addormentato in cuore

che appena desto solo allor ti muore.

E l'Eroe disse ai vecchi remiganti:

Compagniudite. Qui non son che capre;

e qui potremmo d'infinita carne

empircifino a che sparisca il sole.

Ma no: le voglio prendere al pastore

pecore e capre; ch'ècosìben meglio.

È làpari a un cocuzzolo silvestro

quel mio pastore. Io l'accecai. Ma il grande

cuor non m'è pago. Egli implorò dal padre

ch'io perdessi al ritorno i miei compagni

e mal tornassie in nave d'altrie tardi.

Or sappia che ho compagni e che ritorno

sopra nave ben mia dal mio ritorno.

Andiamo: a mare troveremo un antro

tutto copertoio ben lo sodi lauro.

Avessi ancora il mio divino Aedo!

Vorrei che il canto d'Odisseo là dentro

cantassee quegli nel tornare all'antro

sostasse cieco ad ascoltar quel canto

coi greggi attornoil mento sopra il pino.

E io sedessi all'ombra suanel lido!

Dissee ai compagni longiremi ingiunse

di salir essi e sciogliere gli ormeggi.

Salirono essie in fila alle scalmiere

facean coi remi biancheggiare il flutto.

E giunti pressovidero sul mare

in una puntal'antroaltocoperto

di molto lauroe v'era intorno il chiuso

di rozzi blocchie lunghi pini e quercie

altochiomanti. E il vecchio Eroe parlava:

Là prendiam terrach'egli dal remeggio

non ci avvisti; ch'a gli orbi occhio è l'orecchio;

e non ci avventi un massocome quello

che troncò in cima di quel picco nero

e ci scagliò. Rimbombò l'onda al colpo.

Ed accennava un alto montetronco

del capoche sorgeva solitario.

 

XIX

 

IL CICLOPE

Ecco: ai compagni disse di restare

presso la nave e di guardar la nave.

Ed egli all'antro già moveasoletto

per lui vedere non vedutoquando

parasse i greggi sufolando al monte.

Ora all'Eroe parlava Iro il pitocco:

Ben verrei reco per veder quell'uomo

che tanto mangiae portar viase posso

di sui canniccigià scolati i caci

e qualche agnello dai gremiti stabbi.

Poi ch'Iro ha fame. E s'ei dentro ci fosse

il gran Ciclopesai ch'Iro è veloce

ben che non forte; è come Iri del cielo

che va sul vento con il piè di vento.

L'Eroe sorrisee insieme i due movendo

il pitocco e l'Eroegiunsero all'antro.

Dentro e' non era. Egli pasceva al monte

i pingui greggi. E i due meravigliando

vedean graticci pieni di formaggi

e gremiti d'agnelli e di capretti

gli stabbie separati eranoognuni

ne' loroi primaticcii mezzanelli

e i serotini. E d'uno dei recinti

ecco che uscìcon alla poppa il bimbo

un'altocinta femminache disse:

Ospitigioia sia con voi. Chi siete?

donde venuti? a cambiar quiqual merce?

Ma l'uomo è fuoricon la greggiaal monte;

tra poco tornaché già brucia il sole.

Ma pur mangiatese il tardar v'è noia.

Sorrise ad Iro il vecchio Eroe: poi disse:

Ospite donnae pur con te sia gioia.

Ma dunque l'uomo a venerare apprese

gli dei beatied ora sa la legge

benché tuttora abiti le spelonche

come i suoi pariper lo scabro monte?

E l'altocinta femmina rispose:

Ospiteognuno alla sua casa è legge

e della moglie e de' suoi nati è re.

Ma noi non deprediamo altri: ben altri

ch'errano in vano su le nere navi

come ladronia noi pecore o capre

hanno predate. Altrui portando il male

rischian essi la vita. Ma voi siete

vecchie cercate un dono quinon prede.

Verso Iro il vecchio anche ammiccò: poi disse:

Ospite donnaben di lui conosco

quale sia l'ospitale ultimo dono.

Ed ecco un grande tremulo belato

s'udì veniree un suono di zampogna

e sufolare a pecore sbandate:

e ne' lor chiusi si levò più forte

il vagir degli agnelli e dei capretti.

Ch'egli venivae con fragore immenso

depose un grande carico di selva

fuori dell'antro: e ne rintronò l'antro.

E Iro in fondo s'appiattò tremando.

 

XX

 

LA GLORIA

E l'uomo entròma l'altocinta donna

gli venne incontroe lo seguiano i figli

moltie le molte pecore e le capre

l'una all'altra addossate erano impaccio

per arrivare ai piccoli. E infinito

era il belatoe l'alte gridae il fischio.

Ma in breve tacque il gemitoe ciascuno

suggea scodinzolando la sua poppa.

E l'uomo vide il vecchio Eroe che in cuore

meravigliava ch'egli fosse un uomo;

e gli parlò con le parole alate:

Ospitemangia. Assai per te ne abbiamo.

Ed al pastore il vecchio Eroe rispose:

Ospitedimmi. Io venni di lontano

molto lontano; eppur io giàdal canto

d'erranti aediconoscea quest'antro.

Io sapea d'un enorme uomo gigante

che vivea tra infinite greggie bianche

selvaggiamentequi su i montisolo

come un gran picco; con un occhio tondo...

Ed il pastore al vecchio Eroe rispose:

Venni di dentro terraioda molt'anni;

e nulla seppi d'uomini giganti.

E l'Eroe riprendevaed i fanciulli

gli erano attornodel pastoreattenti:

che aveva solo un occhio tondoin fronte

come uno scudo bronzeocome il sole

accesovuoto. Verga un pino gli era

e gli era il sommo d'un gran montepietra

da fiondae in mare li scagliavae tutto

bombiva il mare al loro piombar giù...

Ed il pastoretra i suoi pastorelli

pensavae disse all'altocinta moglie:

Non forse è questo che dicea tuo padre?

Che un savio c'erauomo assai buono e grande

per quiTelemo Eurymideche vecchio

dicea che in mare piovea pietreun tempo

sìda quel monteche tra gli altri monti

era più grande; e che s'udian rimbombi

nell'alta nottee che appariva un occhio

nella sua cimaun tondo occhio di fuoco...

Ed al pastore chiese il moltaccorto:

E l'occhio a lui chi trivellò notturno?

Ed il pastore ad Odisseo rispose:

Al monte? l'occhio? trivellò? Nessuno.

Ma nulla io vidie niente udii. Per nave

ci vien talvoltae non altrondeil male.

Disse: e dal fondo Iro avanzòche disse:

Tu non hai che fanciulli per aiuto.

Prendi meben sì vecchioma nessuno

veloce ha il piede più di mese debbo

cercar l'agnello o rintracciare il becco.

Per chi non ebbe un tetto maipastore

quest'antro è buono. Io ti sarò garzone.

 

XXI

 

LE SIRENE

Indi più lungi navigòpiù triste.

E stando a poppa il vecchio Eroe guardava

scuro verso la terra de' Ciclopi

e vide dal cocuzzolo selvaggio

del monteche in disparte era degli altri

levarsi su nel roseo cielo un fumo

tenueleggieroquale esce su l'alba

dal fuoco che al pastore arse la notte.

Ma i remiganti curvi sopra i remi

vedeanosìnel violaceo mare

lunghe tremare l'ombre dei Ciclopi

fermi sul lido come ispidi monti.

E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo

squittiva dentrocome cane in sogno:

Il mio sogno non era altro che sogno;

e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.

E gli sovvenne delle due Sirene.

C'era un prato di fiori in mezzo al mare.

Nella gran calma le ascoltò cantare:

Ferma la nave! Odi le due Sirene

ch'hanno la voce come è dolce il miele;

ché niuno passa su la nave nera

che non si fermi ad ascoltarci appena

e non ci ascoltache non goda al canto

né se ne va senza saper più tanto:

ché noi sappiamo tutto quanto avviene

sopra la terra dove è tanta gente!

Gli sovvenivae ripensò che Circe

gl'invidiasse ciò che solo è bello:

saper le cose. E ciò dovea la Maga

dalle molt'erbein mezzo alle sue belve.

Ma l'uomo erettoch'ha il pensier dal cielo

dovea fermarsiudireanche se l'ossa

aveano poi da biancheggiar nel prato

e raggrinzarsi intorno lor la pelle.

Passare ei non doveva oltrese anco

gli si vietava riveder la moglie

e il caro figlio e la sua patria terra.

E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:

Uominiandiamo a ciò che solo è bene:

a udire il canto delle due Sirene.

lo voglio udirloeretto su la nave

né già legato con le funi ignave:

libero! alzando su la ciurma anela

la testa bianca come bianca vela;

e tutto quanto nella terra avviene

saper dal labbro delle due Sirene.

Dissee ne punse ai remiganti il cuore

che seduti coi remi battean l'acqua

saper volendo ciò che avviene in terra:

se avea fruttato la sassosa vigna

se la vacca avea fattose il vicino

aveva d'orzo più raccolto o meno

e che facea la fida moglie allora

se andava al fontese filava in casa.

 

XXII

 

IN CAMMINO

Ed ecco giunse all'isola dei loti.

E sedean sulla riva uomini e donne

sazi di lotoin dolce oblìo composti.

E sorseroai canuti remiganti

offrendo pii la floreal vivanda.

O così vecchi erranti per il mare

mangiate il miele dell'oblìo ch'è tempo!

Passò la navee lento per il cielo

il sonnolento lor grido vanì.

E quindi venne all'isola dei sassi.

E su le rupi stavano i giganti

come in vedettae su la nave urlando

piovean pietre da carico con alto

fracasso. A stento si salvò la nave.

E quindi giunse all'isola dei morti.

E giacean lungo il fiume uomini e donne

sazi di vitasotto i salci e i pioppi.

Volsero il capo; e videro quei vecchi;

e alcuno il figlio ravvisò fra loro

più di lui vecchioe per pietà di loro

gemean: Venite a riposare: è tempo!

Passò la naveed esile sul mare

il loro morto mormorio vanì.

E di lì venne all'isola del sole.

E pascean per i prati le giovenche

candide e nerecon le dee custodi.

Essi udiano mugliare nella luce

dorata. A stento lontanò la nave.

E di lì giunse all'isola del vento.

E sopra il muro d'infrangibil bronzo

vide i sei figli e le sei figlie a guardia.

E videro la naveessie nel bianco

suo timoniereparso in prima un cigno

o una cicognauno Odisseo conobbe

che così vecchio anco sfidava i venti;

e con un solo sibilo sul vecchio

scesero insieme di sul liscio masso.

Ed ora l'ira li portòdei venti

per giorni e nottie li sospinse verso

le rupi errantima così veloce

che a mezzo un cozzo delle rupi dure

come uno strale scivolò la nave.

E allora l'aspra raffica discorde

portava lei contro Cariddi e Scilla.

E già l'Eroe sentì Scilla abbaiare

come inquïeto cucciolo alla luna

sentì Cariddi brontolar bollendo

come il lebete ad una molta fiamma;

e le dodici branche avventò Scilla

ed assorbì la salsa acqua Cariddi:

invano. Era passata oltre la nave.

E tornarono i venti alla lor casa

cinta di bronzomormorando cupi

tra loroin rissa. E venne un'alta calma

senza il più lieve soffioe sopra il mare

un dio forse erache addormentò l'onde.

 

XXIII

 

IL VERO

Ed il prato fiorito era nel mare

nel mare liscio come un cielo; e il canto

non risonava delle due Sirene

ancoraperché il prato era lontano.

E il vecchio Eroe sentì che una sommessa

forzacorrente sotto il mare calmo

spingea la nave verso le Sirene

e disse agli altri d'inalzare i remi:

La nave corre ora da sécompagni!

Non turbi il rombo del remeggio i canti

delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto

placidi uditeil braccio su lo scalmo.

E la corrente tacita e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E il divino Odisseo vide alla punta

dell'isola fiorita le Sirene

stese tra i fioricon il capo eretto

su gli ozïosi cubitiguardando

il mare calmo avanti séguardando

il roseo sole che sorgea di contro;

guardando immote; e la lor ombra lunga

dietro rigava l'isola dei fiori.

Dormite? L'alba già passò. Già gli occhi

vi cerca il sole tra le ciglia molli.

Sireneio sono ancora quel mortale

che v'ascoltòma non poté sostare.

E la corrente tacita e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E il vecchio vide che le due Sirene

le ciglia alzate su le due pupille

avanti sé miravanonel sole

fisseod in luinella sua nave nera.

E su la calma immobile del mare

alta e sicura egli inalzò la voce.

Son io! Son ioche torno per sapere!

Ché molto io vidicome voi vedete

me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo

mi riguardò; mi domandò: Chi sono?

E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E il Vecchio vide un grande mucchio d'ossa

d'uominie pelli raggrinzate intorno

presso le due Sireneimmobilmente

stese sul lidosimili a due scogli.

Vedo. Sia pure. Questo duro ossame

cresca quel mucchio. Mavoi dueparlate!

Ma dite un veroun solo a metra il tutto

prima ch'io muoiaa ciò ch'io sia vissuto!

E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E s'ergean su la nave alte le fronti

con gli occhi fissidelle due Sirene.

Solo mi resta un attimo. Vi prego!

Ditemi almeno chi sono io! chi ero!

E tra i due scogli si spezzò la nave.

 

XXIV

 

CALYPSO

E il mare azzurro che l'amòpiù oltre

spinse Odisseoper nove giorni e notti

e lo sospinse all'isola lontana

alla speloncacui fioriva all'orlo

carica d'uve la pampinea vite.

E fosca intorno le crescea la selva

d'ontani e d'odoriferi cipressi;

e falchi e gufi e garrule cornacchie

v'aveano il nido. E non dei vivi alcuno

né dio né uomovi poneva il piede.

Or tra le foglie della selva i falchi

battean le rumorose alee dai buchi

soffiavanodei vecchi alberii gufi

e dai rami le garrule cornacchie

garrian di cosa che avvenia nel mare.

Ed ella che tessea dentro cantando

presso la vampa d'olezzante cedro

stupìfrastuono udendo nella selva

e in cuore disse: Ahimèch'udii la voce

delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!

E tra le dense foglie aliano i falchi.

Non forse hanno veduto a fior dell'onda

un qualche dioche come un grande smergo

viene sui gorghi sterili del mare?

O muove già senz'orma come il vento

sui prati molli di viola e d'appio?

Ma mi sia lungi dall'orecchio il detto!

In odio hanno gli dei la solitaria

Nasconditrice. E ben lo soda quando

l'uomo che amavorimandai sul mare

al suo dolore. O che vedeteo gufi

dagli occhi tondie garrule cornacchie?

Ed ecco usciva con la spola in mano

d'oroe guardò. Giaceva in terrafuori

del mareal piè della speloncaun uomo

sommosso ancor dall'ultima onda: e il bianco

capo accennava di saper quell'antro

tremando un poco; e sopra l'uomo un tralcio

pendea con lunghi grappoli dell'uve.

Era Odisseo: lo riportava il mare

alla sua dea: lo riportava morto

alla Nasconditrice solitaria

all'isola deserta che frondeggia

nell'ombelico dell'eterno mare.

Nudo tornava chi rigò di pianto

le vesti eterne che la dea gli dava;

bianco e tremante nella morte ancora

chi l'immortale gioventù non volle.

Ed ella avvolse l'uomo nella nube

dei suoi capelli; ed ululò sul flutto

steriledove non l'udia nessuno:

- Non esser mai! non esser mai! più nulla

ma meno morteche non esser più! -

 

 

 

IL POETA DEGLI ILOTI

 

I

 

IL GIORNO

Figlio di Diomolto giocondo in cuore

prendesti terra in Aulide pietrosa!

Tornavi tu dal suolo degli Abanti

ricco di vignedalla popolata

di belle donne Calcide; né prima

d'allora avevi traversato il mare.

Ma il largo mare traversasti allora;

ché il repiù re degli uomini mortali

era là mortoed una gara indetta

e di lotte e di corse erae di canto.

E tu nel canto ogni cantor vincesti

anche il vecchio di Chio cieco e divino

col tuo ben congegnato inno di guerra.

Ed ora sceso dalla nera nave

movevi ad Ascraassai giocondo in cuore;

ché per la via ti camminava a paro

un curvo schiavoche reggea sul dorso

il premio illustre: un tripode di bronzo.

Ché l'orecchiuto tripode di bronzo

gravava in prima al buon Ascreo le spalle;

e prima l'unae l'altra poi; ché grave

eradi bronzo; e poi l'aveaper l'anse

sospeso al ramo ch'era suod'alloro;

e lo portava: ma venuto a un grande

platanodonde chiara acqua sgorgava

sostògià stanco. Ed era quello il fonte

dove il segno gli Achei viderod'otto

passeri implumie nove con la madre.

E di passeri il platano sul fonte

garriva ancorae il buon Ascreo li udiva

pensando in cuore un nuovo inno di guerra.

E riprendeva già la viacol caro

tripodein dossoche brillava al sole

quando sorvenne un viator che bevve;

e seguitò. Ma poco dopo «O vecchio.»

disse«ch'io porti il tuo laveggio: è peso.»

E tolse prima il tripodeche l'altro

gli rispondesse: dopogli rispose:

«Grave eraè grave. Ed anche tu sei vecchio.»

«Ma sono schiavo» gli rispose il vecchio:

«schiavo; e dal monte Citerone io venni

menando al maread una curva nave

due bei vitellinati schiavi anch'essi.

Torno al padrone. Ma tu doveo babbo?»

«Ad Ascra: ad Ascramisero villaggio

tristo al freddoaspro al caldoe non mai buono.»

E non addimandato altro gli disse:

«Venni per maread Aulide: ho passato

l'Euripo. Indetta a Calcide una gara

e di lotte e di corse erae di canto.

Vinsi codesto tripode di bronzo

cantando gesta degli eroi...» «Sei dunque

rapsodo errantee sai le false cose

far come verema non dir le vere.»

Non rispondeva il vecchio Ascreoché tutto

era in pensar le mille navi in porto

mentre sul curvo lido la procella

scotea le chiome degli Achei chiomanti.

E il sole era già caldoe la campagna

fervea di mugli. Ché la pioggia a lungo

nei dì passati avea temprato il suolo

e i contadini aravano le salde

ed era tempo d'affidar le fave

ai solchi nerie la lenticchia ai rossi.

E nudo un uomo traea giù da un carro

presso la stradacon un suo ronciglio

il pingue concio. E il buon Ascreo ne torse

il volto offeso. Ma lo schiavo curvo

sotto il ben fatto tripode di bronzo

disse gioia a quel nudo uomoe quel concio

lodòmaturo. E brontolò stradando:

«Ben fachi fa. Sol chi non fafa male.»

Ed era presso mezzodìné casa

ora apparivaa cui cercare un dono

piccolo e caro. Ché tra rupi e cespi

di stipe in fiore essi ripìanomuti.

Taceva anche la lodola dal ciuffo;

anche il cantore. Egli tacea per l'astio

ch'altri tacesse. Ma lo schiavo andando

volgea lo sguardo alle inamene roccie.

E disse alfine: «Ecco!» E mostrò la roccia

verdein un puntoper nascente ontano.

«C'è tuttoal mondoma nascosto è tutto.

Primacercaree poi convien raspare.»

Egli depose il tripode di bronzo

raspòrinvenne un sottil filo d'acqua.

Poi dal laveggio che brillava al sole

un pane trasseche v'avea deposto

e lo partì col buon Ascreodicendo:

«So ch'è più grande la metà che il tutto.»

Finitoprima che la fameil cibo

mossero ancora per la via rupestre

che già scendeva. Ed ecco che lo schiavo

guardando attorno vide una bolgetta

in un cespuglio. E presalavi scòrse

splendere dentro due talenti d'oro.

E guardò giù per il sentieroe scòrse

lontan lontano cavalcare un uomo.

E disse: «Padreper un po' sul dorso

reggimi il grave tripode di bronzo

ché n'avrei briga nel veloce corso.»

E corsee giunse al cavaliercui rese

poi ch'egli suo glielo giuròquell'oro.

Poitrafelatoil buon Ascreo sorvenne.

«Facile t'era aver per te quell'oro!»

disse allo schiavo. E mormorò lo schiavo:

«Facilesì: c'è poca strada al male.

Il maleo padreè nostro casigliano.»

Così parlando andavanoe la strada

era già pianae si vedean tuguri

di contadini ed ammuffiti borghi.

E lor giungea da tempo uno schiamazzo

di vocicome un abbaiar di cani

lontani. E sempre lor venìa più presso.

Erano gente che in un trivio aperto

rissavano con voci aspre di cani.

E alcun di loro già brandìa la zappa

poi che l'irosa voce era già rauca;

quando lo schiavo nel buon punto accorse

deposto in terra il tripode di bronzo;

e tenne l'uno e sgridò l'altroe disse:

«Pace! È la pace che ralleva i bimbi.

Sono i pesci dell'acquee son le fiere

dei boschie sono gli avvoltoi dell'aria

ch'hanno per legge di mangiar l'un l'altro.

Gli uomininoché la lor legge è il bene.»

E quelli ognun tornava all'intermessa

operain pace. E i bovi sotto il giogo

rivedeano il lor uomo con un muglio

compiendo il solco al suon della sua voce

ch'era arrochita: e le ricurve zappe

sfacean le zolle seppellendo il seme.

E lo schiavo riprese sopra il dorso

l'aspro di segni tripode di bronzo

e riprendendo la sua via diceva

ad un rubesto giovane: «Lavora

o gran fanciullose la terra e il cielo

t'aminoamando essi chi lor somiglia!

Ché la nube carreggiacon un cupo

brontolìol'acqua; e da lontanoansando

il vento viene; e infaticato il sole

torna ogni giorno. Ma la terra è tarda

madre che fece tanti figlie tutti

li ebbe alla poppa. O dàlle ora una mano!»

E lo schiavo stradò col suo cantore

a paro a paro. E già scendea la sera

e velava una dolce ombra le strade.

Né più borghi muffiti erano intorno

né casolari. Erano intorno macchie

folte di lauro che odorava al cielo.

E videro ambedue ch'era smarrita

ormai la strada. Ed il cantore stanco

disse allo schiavo: «Mal tu m'hai condotto.»

E gli rispose il pazïente schiavo:

«In te fidavo: Ché del buon cammino

chi c'èse non il buon cantormaestro?»

 

II

 

LA NOTTE

E sul lor capo era l'opaca notte

piena di stelle. E risplendea nel cielo

l'Orsa minoreche accennò qual fosse

la vera stradané però dall'alto

la rischiaravacolaggiùnell'ombra.

E l'uomo allora e presso lui lo schiavo

sostarono nel bosco ove in un giogo

s'allargava assai piana una radura

donde era meglio preveder le fiere

se alcuna v'era che traesse al fiuto.

E poi lo schiavo conficcò nel suolo

il suo bastonee presso quello il ramo

di sacro laurodel cantoree sopra

la sua schiavina sciorinòche fosse

schermo dal lato onde veniva il freddo.

E disse: «O padrebene io so le notti

gelidee il sonno sotto la rugiada.

Ma è ben tardi perché tu l'impari.»

Ma allo schiavo il pio cantor rispose:

«Ospite carobasta ch'io ricordi.

Ero fanciullo ed imparai le notti

gelide e il sonno sotto la rugiada.

Ché da fanciullo pascolai la greggia

reggendo in mano la ricurva verga

del pecoraionon lo scettroramo

di sacro alloro chesenz'altro squillo

d'arguta cetracolma a me di canto

come alle genti di silenzioil cuore.

Mio padre ad Ascra dall'eolia Cyme

vennefuggendonon la copia e gli agi

sì la cattiva povertà; che venne

tanto l'amavasu la nave anch'ella

né più si stolse e poi restò col figlio.

E io badai le pecore sui greppi

dell'Eliconeil grande monte e bello

e le notti passai su la montagna.

E in una notte come questa... il sonno

non mi voleva. Ché splendean le stelle

tutte nel cieloe fresche del lavacro

veniano su le Pleiadi che al campo

lascian l'aratro e trovano la falce.

E insonne udivo uno stormir di selve

un correr d'acqueun mormorio di fonti.

E s'esalava un infinito odore

dai molli pratie tutto era silenzio

e tutto voce; ed era tutto un canto.

Ed ecco tutto io mi sentii dischiuso

all'universoche d'un tratto invase

l'essere mio; né così lieve un sogno

entra nell'occhio nostro benché chiuso.

E tutto allora in me trovaiche prima

fuori apparivae in me trovai quel canto

che si frangea nell'anima serena

pienanell'alta opacitàdi stelle.

E quel canto parlava della Terra

dall'ampio pettocheinfelice madre

nell'evo primo non facea che mostri

orrendi enormie li tenea nascosti

in séperché non li vedesse il Cielo.

E lei guardava coi mille occhi il Cielo

molto in sospettoché l'udia sovente

gemere e la vedea scotersi tutta

per la strettura; e venir fumo fuori

nel giornoe fiamme nella nera notte.

Al fin la Terra spinse fuor d'un tratto

la grande prole; e con un grande sbalzo

sorsero i monti dalle cento teste

e d'ogni testa usciva il fumo e il fuoco

che tolse il giorno e insanguinò la notte.

E non era che notterisonante

di stridarugghisibililatrati

e già non altro si vedeache i mostri

lambersi il fuoco con le lingue nere.

E i mostri urlando massi ardenti al Cielo

avventarono; e il Cieloarso dall'ira

spezzò le stelle e ne scagliò le scheggie

contro la Terrae in una notte d'anni

tra Cielo e Terra risonò la rissa.

Qua mille braccia si tendean nell'ombra

coi massi accesie mille urli ad un tempo

uscìan con essi; ma dall'alto gli astri

pioveano muti con un guizzo d'oro.

E il masso a volte si spezzò nell'astro.

E sfavillante un polverìo si sparse

nel nero spaziocome la corolla

d'un fior di luceche per un momento

illuminò gli attoniti giganti

e il mare immenso che ondeggiava al buio

e in terra e in aria rettili deformi

nottole enormi; e qualche viso irsuto

di scimmia intento ad esplorar da un antro.

E poi fu pace. Ed ecco uscì dall'antro

il bruto simoe nella gran maceria

dove sono i rottami anche del Cielo

frugò raspò scavòcome fa il cane

senza padroneove si spense un rogo.

E fruga ancora e raspa ancora e scava

ancora. Ma dal Cielo ora alla Terra

sorride il sole e piange pia la nube.

È pace. Pur la Terra anco ricorda

l'antica lottae gitta fuocoe trema.

E al Cielo torna l'ira anticae scaglia

folgori a lei con subito rimbombo.

È pace sìma l'infelice Terra

è sol felicequando ignara dorme;

e il Cielo azzurro sopra lei si stende

con le sue lucie vuol destarla e svuole

e l'accarezza col guizzar di qualche

stella cadenteche però non cade.

Come ora. E sol com'ora anco è felice

l'uomo infelice; s'egli dorme o guarda:

quando guarda e non vede altro che stelle

quando ascolta e non ode altro che un canto.»

Così parlavae dolce sorse un canto:

sul rumor delle foglie e delle fonti

un dolce canto pieno di querele

e di domandeun nuvolo di strilli

cadente in un singulto graveun grave

gemere che finiva in un tripudio.

E il buon Ascreo diceva: «Eccofu tolto

il sonnotutto al querulo usignolo

che così piange per la notte intiera

né sotto l'ala mai nasconde il capo;

ma solo mezzoa quella cui la sera

gemere ascolta e riascolta l'alba.

Miseri! e un solo è il lor doloree forse

l'uno non ode mai dell'altro il pianto!»

E lo schiavo diceva: «Oh! non è pianto

questo né l'altro. Ma la casereccia

rondine ha molti i figli e le faccende

e sa che l'alba è un terzo di giornata;

e dolce a quegli che operò nel giorno

viene la serae lieto suona il canto

dopo il lavoro. E l'usignol gorgheggia

tutta la notte né vuol prender sonno...

ch'egli non vuole seppellir nel sonno

avere in vano dentro sé non vuole

un solo trillo di quel suo dolce inno!»

Così parlava. E sorse aurea la luna

dalla montagnaed insegnò la strada

al buon Ascreoche mosse con lo schiavo.

A mano a mano lo accoglieva il canto

degli usignolifin che su l'aurora

gli annunzïò ch'era vicino un tetto

una garrula rondine in faccende.

E poi giunsero al monte alto e divino

a un tempio ermo tra i boschi. E il pio cantore

disse allo schiavo: «Ospite amicoè questo

il luogo dove pasturai fanciullo

il greggee dove appresi il cantoe dove

cantai la rissa tra la Terra e il Cielo.

Ma poi mi piacquenon cantare il vero

sì la menzogna che somiglia al vero.

Ora il lavoro canteròné curo

ch'io sembri ai re l'Aedo degli schiavi.»

Disse: e nel tempio solitario appese

il bello ansato tripode di bronzo.

 

 

POEMI DI ATE

 

I

 

ATE

O quale usci dalla città sonante

di colombelle Mecisteo di Gorgo

fuggendo al campi glauchi d'orzoai grandi

olmi cui già mordea qualche cicala

con la stridula sega. E tu fuggivi

figlio di Gorgodall'erbosa Messe

dove un tumultopari a fuocoardeva

sotto un bianco svolìo di colombelle.

Presto e campi di glauco orzo e canori

olmi lasciavae nella folta macchia

nido di gazzes'immergea correndo

pallido ansantee gli vuotava il cuore

la fugae gli scavava il gorgozzule

e dentro dentro gli pungea l'orecchia:

Poi che tumulto non udì né grida

più d'inseguentiegli sostò. La sete

gli ardea le veneed ei bramava ancora

tuffare in una viva acqua corrente

la mano impura di purpureo sangue.

Una rana cantava non lontana

che lo guidò. Qua quacantavaè l'acqua:

bruna acquaacqua che fiori apre di gialle

rose palustri e candide ninfee.

Ora egli udì la rauca cantatrice

della fontanaMecisteo di Gorgo

e seguì l'orma querula e si vide

a un verde stagno che fiorìa di gialle

rose palustri e candide ninfee.

Come egli giunsela canora rana

tacquee lo stagno gorgogliò d'un tonfo.

Or egli prima nello stagno immerse

le mani e a lungo stropicciò la rea

con la non rea: di tutte e due già monde

del parifece una rotonda coppa

e la soppose al pìspino. Né bevve.

L'acqua era nera come mortee rossi

come saette uscite dalla piaga

erano i giunchie lividedi tabe

le rose accanto alle ninfee di sangue.

E Mecisteo fuggì dal nero gorgo

chiazzato dalle rose ampie del sangue;

fuggì lontano. Or quando già l'ardente

foga dei piedi temperavaun tratto

sentì da tergo un calpestìo discorde:

due passiuno era forteuno non era

che dell'altro la sùbita eco breve:

onde il suo capo inorridì di punte

e il cuore gli si profondòpensando

che già non fosse il disugual cadere

di goccie rosse dentro l'acque nere

né la lontana torbida querela

di quella ranama pensando in cuore

ch'era AteAte la vecchiaAte la zoppa

che dietro le fiutate orme veniva.

Né riguardòma più veloce i passi

stesee gli orecchi inebrïò di vento.

Ma trito e secco gli venìa da tergo

sempre lo stesso calpestìo discorde

misto a uno scabro anelito; né forse

egli pensò che fosse il picchiar duro

del taglialegna in echeggiante forra

misto alla rauca ruggine del fiato:

era AteAte la zoppaAte la vecchia

che lo inseguiva con stridente lena

veloceinfaticabile. E già fuori

correa del boscosopra acute roccie;

e d'una in altra egli balzavapari

allo stambeccoe a ogni lancio udiva

l'urlo e lo sforzo d'un simile lancio

poi dietro sé picchierellare il passo

eterno con la sùbita eco breve.

Fin che giunse al burronealtoinfinito

tale che all'orlo non giungea lo stroscio

d'una fiumana che muggiva al fondo.

Allor si volse per lottar con Ate

il buono al pugno Mecisteo di Gorgo;

volsesi e scricchiolar fece le braccia

protesel'aria flagellandoe il destro

piede più dietro ritraeva... e cadde.

CaddeeprecipitandoAte vide egli

che all'orlo estremo di tra i caprifichi

mostrò le rughe della frontee rise.

 

II

 

L'ETÈRA

O qualeun'albaMyrrhine si spense

la molto caraquando ancor si spense

stanca l'insonne lampada lasciva

conscia di tutto. Ma v'infuse Evèno

ancor rugiada di perenne ulivo;

e su la via dei campi in un tempietto

chiusodi marmoappese la lucerna

che rischiarasse a Myrrhine le notti;

in vano: ch'ella alfin dormivae sola.

Ma lievemente a quel chiaroreardente

nel gran silenzio opaco della strada

volòcon lo stridìo d'una falena

l'anima d'essa: ché vagava in cerca

del corpo amatoper vederlo a cora

biancoperfettoil suo bel fior di carne

fiore che apriva tutta la corolla

tutta la nottee si chiudea su l'alba

avido ed asprosenza più profumo.

Or la falena stridula cercava

quel morto fioree batté l'ali al lume

della lucernache sapea gli amori;

ma il corpo amato ella non videchiuso

coi molti arcani balsaminell'arca.

Né volle andare al suo cammino ancora

come le aeree animecui tarda

prendere il volosimili all'incenso

il cui destino è d'olezzar vanendo.

E per l'opaca strada ecco sorvenne

un coro allegrocon le faci spente

da un giovenile florido banchetto.

E Moscho a quella lampada solinga

la teda accesee lesse nella stele:

MYRRHINE AL LUME DELLA SUA LUCERNA

DORME. È LA PRIMA VOLTA ORAE PER SEMPRE.

E disse: Amicibuona a noi la sorte!

Myrrhine dorme le sue nottie sola!

Io ben pregava Amore iddioche al fine

m'addormentasse Myrrhine nel cuore:

pregai l'Amore e m'ascoltò la Morte.

E Callia disse: Ell'era un'apee il miele

stillavama pungea col pungiglione.

E disse Agathia: Ella mesceva ai bocci

d'amor le spineai dolci fichi i funghi.

E Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari!

ellabuonacambiava oro con rame.

E stetteroebbri di vin dolceun poco

lì nel silenzio opaco della strada.

E la lucerna lor blandia sul capo

tremulail serto marcido di rose

e forse tratta da quel morto olezzo

ronzava un'invisibile falena.

Ma poi la face alla lucerna tutti

l'un dopo l'altroaccesero. Poi voci

alte destò l'auletride col flauto

doppiodi bussoe tra faville il coro

con un sonoro trepestìo si mosse.

L'animano. Rimase ancorae vide

le luci e il canto dileguar lontano.

Era sfuggita al demone che insegna

le vie muffite all'anime dei morti;

gli era sfuggita: or non sapeada sola

trovar la strada: e stette ancora ai piedi

del suo sepolcroal lume vacillante

della sua conscia lampada. E la notte

era al suo colmopiena d'auree stelle;

quando sentì venire un passoun pianto

venire acutoe riconobbe Evèno.

Ché avea perduto il dolce sonno Evèno

da molti giornied or sapea che chiuso

era nell'arcacon la morta etèra.

E singultendo disserrò la porta

del bel tempiettoe presa la lucerna

entrò. Poi destrocon l'acuta spada

tentò dell'arca il solido coperchio

e lo mossee con ambedue le mani

puntellando i ginocchil'alzò. C'era

con luinon vistaalle sue spallee il lieve

stridìo vaniva nell'anelito aspro

d'Evènoun'ombra che volea vedere

Myrrhine morta. E questa apparve; e quegli

lasciò d'un urlo ripiombare il marmo

sopra il suo sonno e l'amor suoper sempre.

E fuggìfuggì via l'animae un gallo

rosso cantò con l'aspro inno la vita:

la vita; ed ella si trovò tra i morti.

Né una a tutti era la via di morte

ma tante e tantee si perdean raggiando

nell'infinita opacità del vuoto.

Ed era ignota a lei la sua. Ma molte

ombre nell'ombra ella vedea passare

e dileguare: alcune col lor mite

demone andare per la via serene

ed altrein vanoricusar la mano

del lor destino. Ma sfuggita ell'era

da tanti giorni al demone; ed ignota

l'era la via. Dunque si volse ad una

anima dolce e vergineche andando

si rivolgeva al dolce mondo ancora;

e chiese a quella la sua via. Ma quella

l'anima puraecco che tremò tutta

come l'ombra di un nuovo esile pioppo:

«Non la so!» dissee nel pallor del Tutto

vanì. L'etèra si rivolse ad una

anima santa e flebileseduta

con tra le mani il dolce viso in pianto.

Era una madre che pensava ancora

ai dolci figli; ed anche lei rispose:

«Non la so!»; quindi nel dolor del Tutto

sparì. L'etèra errò tra i morti a lungo

miseramente come già tra i vivi;

ma ora in vano; e molto era il ribrezzo

di làper l'inquïeta anima nuda

che in faccia a tutti sorgea su nei trivi.

E alfine insonne l'anima d'Evèno

passò veloceche correva al fiume

arsa di setedell'oblìo. Né l'una

l'altra conobbe. Non l'avea mai vista.

Myrrhine corse su dal trivioe chiese

a quell'incognita anima veloce

la strada. Evèno le rispose: «Ho fretta.»

E più veloce l'anima d'Evèno

corsein orroree la seguì la trista

anima ignuda. Ma la prima sparve

in lontananzanella eterna nebbia;

e l'altraamantea un nuovo trivio incerto

sostòl'etèra. E intese là bisbigli

ma così tenuicome di pulcini

gementi nella cavità dell'uovo.

Era un bisbiglioquale già l'etèra

s'era ascoltatacon orrordal fianco

venir su piosommessamente... quando

aveadi làquel suo bel fior di carne

senza una piega i petali. Ma ora

trasse al sussurroMyrrhine l'etèra.

Cauta pestava l'erbe alte del prato

l'anima ignudae riguardava in terra

tra gl'infecondi caprifichie vide.

Vide lìtra gli asfòdeli e i narcissi

starseneinformi tra la vita e il nulla

ombre ancor più dell'ombra esilii figli

suoiche non volle. E nelle mani esangui

aveano i fiori delle ree cicute

avean dell'empia segala le spighe

per lor trastullo. E tra la morte ancora

erano e il nullapresso il limitare.

E venne a loro Myrrhine; e gl'infanti

latteirugosilei vedendoun grido

diederosmorto e gracilee gettando

i tristi fioricorsero coi guizzi

viadelle gambe e delle lunghe braccia

pendule e flosce; come nella strada

molle di pioggiaal risonar d'un passo

fuggono ranchi ranchi i piccolini

di qualche bodda: tali i figli morti

avanti ancor di nascerei cacciati

prima d'uscire a domandar pietà!

Ma la soglia di bronzo era lì presso

della gran casa. E l'atrio ululò tetro

per le vigili cagne di sotterra.

Pur vi guizzòla turba infantedentro

rabbrividendoe dietro lor la madre

nell'infinita oscurità s'immerse.

 

III

 

LA MADRE

O quale Glaucoebbro d'oblìopercosse

la santa madre. E non poté la madre

che pur volevasostener nel cuore

quella percossa al volto umile e mesto;

ché da tanti dolori liso il cuore

eccosi ruppe; e ne dové morire.

E subito il buon demone sorvenne

e più veloce d'un pensier di madre

ultimola soave anima prese

la sollevòla portò via lontano

e due tre volte la tuffò nel Lete.

E le dicea: «Dimentica per sempre

anima buona; ché sofferto hai troppo!»

E pose lei nel sommo della terra

dove è più lucepiù beltà; più Dio:

nel calmo Elisiodonde mai non torna

l'anima al bassoa dolorar la vita.

Ma nel profondo della terra il figlio

precipitònel baratro sotterra

tanto sotterra alla sua tombaquanto

erano su la tomba alte le stelle.

E là funella oscuritàtravolto

dalla massa d'eterna acquache sciacqua

pendula in mezzo all'infinito abisso;

chementre oscilla il globo della terra

là dentro flottae urta le pareti

solidee con cupo impeto rimbomba.

E l'anima di Glauco era travolta

nell'acqua eternae or lanciata contro

le roccie liscieor tratta dal risucchio

giù. Né un raggio di lucema una romba

senza pensieroe senza tempo il tempo.

Quandoun flutto sboccò con un singulto

in un crepaccioe Glauco sgorgò dentro

l'antro sonantee si trovò su l'onda

d'un nero fiume che correa sotterra

rapacemente. Ed era tutto un pianto

un pianto occultoil pianto dopo morte

oh! così vanole cui solitarie

lacrime lecca il labile lombrico.

E il fiume cieco del dolor sepolto

portò Glauco vicino alla palude

Acherusìadeove tra terra e acqua

errano l'ombre a cui la morte insegna

e che verranno ad altra vita ancora

quando il destino li rivoglia in terra.

E vide le aspettantti anime Glauco

sul denso limoa cui l'urtava il flutto

e gridò Glaucoaltoe chiamò la madre:

«Madre che offesi... madre che percossi...

madre che feci piangere... Ma vengo

sul fiume eternoo mammaa tedel pianto!

O mamma che... feci morire! E morto

ti sono anch'io; nato da te! più morto!

Sì: t'ho percossa. Ma non sai con quanta

forza alle scabre roccie mi percuota

l'acqua laggiùnel baratro; e che buio

laggiù! che grida! Oh! mai non fossi nato!

Mamma... pietà! perdonami! Se lasci

ch'io salga; e basta che tu vogliaio salgo;

oh! sarò buono! buonoora per sempre!

non ti batterò più!... Mammagià l'onda

mi porta via... perdona dunque! Io torno

laggiù... fa presto. Un tempo eri più buona

o mamma!... O madreti mutò la morte!»

Così pregavail figlio. Eccoe l'ondata

dal molle limo lo staccòlo volle

con sélo steselo portò nel fiume

del pianto vano. E singultendoil fiume

lo versò nell'abisso; e nell'abisso

se lo riprese il vortice segreto.

E l'anima dell'empio era travolta

dall'acqua eternae tratta dal risucchio

giùpoinel buioqua e là percossa.

Ed ella sunel sommo della terra

dove è più lucepiù beltàpiù Dio

sedea serena; e con la guancia offesa

sopra la palmasi facea cullare

dal grande mare d'eteredal breve

lassùmollissimooscillìo del mondo.

Eccolevò dalla tranquilla palma

la guancia offesae riguardava intorno

inorecchita. E il buon demone accorse

e le diceva: «Vieni al dolce Lete

a bere ancora: non assai bevesti!»

Ed ella bevve. Ma via via dagli occhi

le usciva il pianto e le cadea nell'onda.

E le premeva il demonesoave-

mentela nucae le diceva: «Ancora!

Ancora! Bevi! Non assai bevesti!»

E docile beveva ellae nel Lete

le cadea sempre più dirotto il pianto.

Oh! non beveva che l'oblìo del male

la santa madree si levò piangendo

e disse: «Io sento che il mio figlio piange.

Portami a lui!» Né il demone s'oppose;

ché cuor di madre è d'ogni Dio più forte.

E con lei sceseed ella andò sotterra

sempre piangendo e giunse alla palude

Acherusìade. Ed ella errò tra l'alga

deformeed ella s'aggirò tra il fango

sempre accorrendo ad ogni sbocco appena

sentia mugghiare una marea sotterra

e il pianto vano venir sudei morti

sui neri fiumidi su i rossi fiumi.

Ed un fluttolaggiùcon un singulto

gittò Glauco in un antroe poi su l'onde

del nero fiume che correa sotterra

del pianto occultopianto dopo morte;

e lo portò vicino alla palude:

e gridò Glaucoaltoe chiamò la madre:

«Madreeri buonae ti mutò la morte!

mammaio ti feci piangere; mammina

io sì ti feciio figlio tuomorire...»

Ma ellaprima anche di luigridava

dal triste limotra il fragor dei flutti:

«Mia creaturanon lo feci apposta

ioa morir così d'un subitoio

ioa non dirti che non era nulla

ch'era per gioco... Vieni su: perdona!»

E Glauco ascese. E poi la madre e il figlio

vennero ancor dalla palude in terra

l'una a soffriree l'altro a far soffrire.

 

 

SILENO

- Figlio di Panfiglio del dio silvestre

che nei canneti sibila e frascheggia

lànell'Asopoe frange a questa rupe

il lungo soffio della sua zampogna;

tornar nell'ombra io volli a teSileno

ora che tace la diurna rissa

del maglio e della rocciaor che non odo

più lime invidepiù trapani ingordi;

or che gli schiavi qua e là sdraiati

sognano fiumi barbari; e la luna

prendendo il monteil monte di Marpessa

piove un pallore in cui tremola il sonno.

Sono un fanciullosono anch'io di Paro;

Scopas il nome; palestrita: ed oggi

coronato di smilace e di pioppo

correvo a gara con un mio compagno:

e giunsi qui dove gl'ignudi schiavi

Paflàgoni con cupi ululi in alto

tender vedevo intorno ad una rupe

le irsute braccia ed abbassar di schianto.

Eccoil compagno rimandai soletto

al grammatista e al garrulo flagello;

ma io rimasi ad ammirar gl'ignudi

schiavi intorno la rupe alta ululanti.

Su sfavillìo di cunei l'arguto

maglio cadeva; e io seguia con gli occhi

l'opera grande della breve bietta

ch'entra sottile come la parola

poi sforza il massocome quella il cuore;

quandocon uno scroscio ultimoil blocco

s'aprìmostrandocome in ossea noce

bianco garigliote di Pan bicorne

figlioo Sileno: e tu ridevi al sole

riscintillante sopra l'ulivete;

e tu puntavi con l'orecchie aguzze

l'aereo mareggiar delle cicale.

Ma che mai cela questa rupe? Io venni

a domandarti perché mai sorridi

solocostìcol tuo marmoreo volto

e come tendi le puntute orecchie

al sibilìo de' fragili canneti.

Od altro ascolti e vedi altroSileno?

Scopasalunno dell'alpestre Paro

così parlava al candido Sileno

figlio improvviso della roccianato

sotto martelli immemori di schiavi.

Il giovinetto gli sedea di contro

sopra un macignocon al vento i bruni

riccioliin mezzo a molti blocchi sparsi

come il pastore tra l'inerte gregge.

E gli rispose il candido Sileno

o parvea un tratto con un volger d'occhi

simile a lampo che vaporò bianco

e scavò col fugace alito il monte.

Ed a quel lampo il giovinetto vide

ciò che non più gli tramontò dagli occhi.

Videsotto la scorza aspra del monte

vide il tuo regnoo bevitor di gioia

vecchio Sileno: una palestra: in essa

sorprese il breve anelito del lampo

in un bianco lor moto i palestriti:

l'ombra seguace irrigidì quel moto

per sempre; e stette nelle braccia tese

degli oculati pugili già pronto

lo scatto di fischiante arco di tasso

ed alla mano al lanciator ricurvo

restò sospeso impazïente il disco

in cui pulsava il vortice di ruota

ed alla pianta alta de' corridori

l'impeto rapido oscillò del vento:

gli efebi intenti a contemplar la gara

ressero sul perfetto omero l'asta.

In tanto a luminosi propilei

con sul capo le braccia arrotondate

vedeva lente vergini salire:

la pompa che albeggiò per un momento

eternamente camminò nell'ombra.

Videsotto la scorza aspra del monte

emersa dalle grandi acque Afrodite

vergineal breve anelito del lampo

che la scoprivacon le pure braccia

velar le sacre fonti della vita:

l'ombra seguace conservò per sempre

la dolce vita ch'esita nascendo.

E vide anche la morteanche il dolore:

vide fanciulli e vergini cadere

sotto gli strali di adirati numi

e tutti gli occhi volgere agl'ingiusti

sibili: tutti: ma non già la madre:

la madreal cielo; e proteggea di tutta

sé la più spaurita ultima figlia.

In tanto le Nereidi dal mare

volsero il collocon la nivea spinta

del piede su le nuove onde sospesa;

mentre al bosco fuggivano le ninfe

inseguite da satiri correnti

con lor solidi zoccoli di becco;

e un baccanale dileguò sul monte.

Il giovinetto udì strepere trombe

gemere concheed ascoltò soavi

tra l'immensa manìa bronzosonante

squillare i doppi flauti di loto.

Ed ecco il monte ritornò com'era

tacito immotose non se nel fosco

gomito d'una forra anche appariva

l'ultimo bianco di lucenti groppe

di centauri precipitie sonava

un quadruplice tonfo di galoppo

che poi vanì. Ma quando tacque il tutto

oh! come sotto il velo di grandi acque

s'udiva ancora eco di cembalieco

di timpanieco di piovosi sistri;

ed euhoè ed euhoè gridare

come in un sognocome nel gran sogno

di quelle rupi candide di marmo

dormenti nella sacra ombra notturna.

E con quel grido si mescea nell'eco

il lungo soffio della tua zampogna

o Pan silvano; e percotea la fronte

del sorridente bevitor di gioia

e del fanciullo che sedea tra i blocchi

quale un pastore tra l'inerte gregge.

 

 

POEMI DI PSYCHE

 

I

 

PSYCHE

O Psychetenue più del tenue fumo

ch'esce alla casache se più non esce

la gente dice che la casa è vuota;

più lieve della lieve ombra che il fumo

disegna in terra nel vanire in cielo:

sei prigioniera nella bella casa

d'argillao Psychee vi sfaccendi dentro

pur lieve sì che non se n'ode un suono;

ma pur vi seinella ben fatta casa

ché se n'alza il celeste alito al cielo.

E vi sfaccendi dentro e vi sospiri

sempre solettaché non hai compagne

altre che voci di cui tu sei l'eco;

ignude voci che con un sussulto

sorgere ammiri su da ted'un tratto;

voci segrete a cui tu servio Psyche.

Intorno alla tua casao prigioniera

pasce le greggi un Essere selvaggio

bicorneirsuto; e sui due piè di capro

sempre impennatocome a mezzo un salto.

E tu ne temich'egli là minaccia

impazïentee sempre ulula e corre;

e spesso guazza nel profondo fiume

come la pioggiae spesso crolla il bosco

al par del vento; e non è mai l'istante

che tu non l'oda o non lo vedao Psyche

Pan multiforme. Eppur talvolta ei soffia

dolce così nelle palustri canne

che tu l'ascoltio Psychecon un pianto

sìma che è dolceperché fu già pianto

e perse il tristo nel passar dagli occhi

la prima volta. E tu ripensi a quando

vergine fosti ad un'ignota belva

data per mogliecrudel mostro ignoto.

E sempre al buio tu con lui giacesti

rabbrividendo docileed alfine

vigile nel suo sonno alto di fiera

accesa la tua piccola lucerna

guardasti; e quella belva era l'Amore.

E lo sapesti solo allor che sparve

l'Amore alato. E ne sospiri e l'ami.

E nella casa di ben fatta argilla

dove sei schiava delle voci ignude

sempre l'aspettiche ritornie dorma

con te. Tu piangiquando Panla notte

fa dolcemente sufolar le canne;

piangi d'amoreo solitaria Psyche

nella tua casadove più non tieni

postoche l'ombrae non fai più rumore

che l'alito; e le voci odi che fanno

all'improvviso a te cader dal ciglio

la stilla che non ti volea cadere.

Però che sono e sùbite e severe

le più; ma più di tutte una che sempre

contende e gridaad ogni tuo sospiro

verso l'alata libertà: «Non devi!»

Quella non t'amacredi tu; ma un'altra

èsìche t'amae ti favella a parte

e ti consolae teco piangee parla

così sommessa che tu credi a volte

che sia meschina prigioniera anch'ella.

E tu devid'un mucchio alto di semi

far tanti mucchie sceverare i grani

d'orzoi chicchi di migliole rotonde

vecciei bislunghi pippoli di rena.

E come fine polvere di ferro

sparsa per tutto il mucchio è la semenza

dei papaveri. E tuPsychetu gemi

trepidainerte; e poi con le tue dita

d'aria ti proviscegli a lungo i semi

del papavero immemoree in un giorno

tanti ne cogliquanti appena udresti

cantare nella secca urna d'un fiore.

E piangied ecco vengono le figlie

dell'alma Terrafrugole e succinte

dalla pineta dove a Pan selvaggio

frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.

Non so chi disse alle operaie nere

di Pan la cosa. Ma si fa d'un tratto

un brulichìo per l'odorata selva;

e sgorgano esse a frotte dai minuti

lor collicellimentre Pan nell'ombra

s'addorme al canto delle sue cicale.

E salgono alla casaonda su onda

fila incessante di formicheed opre

vengono a te; ma prima i grani d'orzo

pesie i bislunghi pippoli di vena

portanodue di loro uno di quelli;

fanno le veccie di tra il biondo miglio

poi fanno il miglio minimopoi vanno.

E resta a te la polvere di semi

di cui ciascuno dal suo nulla esprima

un lungo stelo e il molle fior del sonno.

E il molle sonno tu lo chiamio Psyche

dacché di quelle voci unala voce

che non t'ama e ti sgrida asprati disse:

«Vil fanticellaprendi questa brocca

e va per acqua al nero fonte; al fonte

di cui sgorga l'oscura ondasotterra

al fiume morto. Esci per pocoe torna.»

E tuo mal gradoo schiavolinaandasti

con la tua brocca di cristallo al fonte;

e là vedestisu la grottail drago

l'insonne dragosempre aperti gli occhi;

e tu chiudestio Psychei tuoida lungi

rabbrividendo; ed ecconon veduto

uno ti prese l'anfora di mano

che piena in mano dopo un po' ti rese

e dileguò. Tu lentamente a casa

tornavi smortae con un gran sospiro

apristi gli occhie nel cristallo puro

tu guardasti l'oscura acqua di morte

e vi vedesti il vortice del nulla

e ne tremasti. E Pan allora un dolce

canto soffiò nelle palustri canne

che tu piangesti a quel pensier di morte

come piangevi per desìo d'amore:

lo stesso piantocosì dolceo Psyche!

Ma pur ne tremio Psycheancorae mesta

invochi il sonnoperché a te nasconda

quell'altro sonnoche non vuoipiù grande!

Ma delle voci di cui tu sei schiava

quella che t'ama e ti consola a parte

ecco che ti favella e ti consola:

«Povera Psycheio so dov'è l'Amore.

Oh! l'Amore t'aspetta oltre la morte.

Di làt'aspetta. Se tu passi il nero

fiume sotterratroverai l'Amore.

Tremi? C'è un vecchiovecchio come il tempo

che tutti imbarcae non fa male a Psyche!

E c'è un caneoltre il fiumeche divora

ciò ch'è di troppoe non fa male a Psyche!

Pallida Psycheprendi tra le labbra

che sembrano due petali appassiti

di morta rosaun oboloe leggiero

tienlocosìche te lo prenda il vecchio

né tu lo senta; e chiudi gli occhie dormi.

E prendi una focacciaanchecol miele

e col mite papaveroe leggiera

tienlacosìche te la prenda il cane

né tu lo senta; e chiudi gli occhie dormi.

Appena destarivedrai l'Amore.»

Tu la focaccia prendi sucol miele

tu chiudi nelle labbra scolorite

l'obolo; e non so quale alito lieve

ti porta via. Per dove passiun'ombra

passanon più che d'ali di farfalla.

Ma tu non dormi; e lievemente il vecchio

ti prende il piccolo obolo di bocca;

ma tu lo sentie senti anche la rauca

lena del vecchio rematorecome

se alcuno seghi il duro legnoe come

se alcuno picchi su la putre terra;

anche senti un latratosolitario;

e tremi tantoche di man ti sfugge

ah! la focacciae fa un tonfo nell'acqua

morta del fiume. Ed anche tu vi cadi

cadi nel queto vortice del nulla.

Ma Pan il gregge pasce là su l'orlo

del morto fiume. Non udivi il suono

làdella vita? Tremuli belati

e cupi mugliil gorgheggiar d'uccelli

tra foglie verdie sotto gravi mandre

lo scroscio vasto delle foglie secche.

E ti cullava nella vecchia barca

un canto lungoche da te più sempre

s'allontanava sino a dileguare

nella dimenticata fanciullezza.

Pan! era Pan! Egli ti porge un braccio

ispidoe su ti leva intirizzita

gelidao Psyche; immemore; e ti corca

nuda cosìlieve cosìnel vello

del suo gran pettoe in sé ti cela a tutti.

Quali alte grida là dal mondo! Quali

tristi lamenti intorno alla tua casa

d'argillao Psychedonde più non esce

il tenue fumoalla tua casa vuota

di cui sparve il celeste alito in cielo.

Ti cercano le gentio fuggitiva.

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ti cerca

nel morto fiume il vecchio che tragitta

tutti di là. Ti cercaacre fiutando

dall'altra riva il cane che divora

ciò ch'è di troppo. Tuttio Psycheinvano!

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ma forse

nelle cannucce. Ma chi sa? Tra il gregge.

O nel vento che passa o nella selva

che cresce. O sei nel bozzolo d'un verme

forse racchiusao forse ardi nel sole.

Ché Pan l'eterno t'ha ripresao Psyche.

 

II

 

LA CIVETTA

«O tristi capi! O solo voci! O schiene

vaie così come la biscia d'acqua!

Via di costì!» gridava agro il custode

della prigione. Era selvaggio il luogo

desertoin mezzo della sacra Atene

con sue deformi catapecchie al piede

di bigie roccie dalle strie giallastre

piene di buchiverdeggianti appena

qua e là di partenio e di serpillo.

Il sole era sui montie nell'azzurro

passava fosco a ora a ora un volo

d'aspri rondoni che girava attorno

sopra la roccaalla gran Dea di bronzo

forte strillando. Ed anche in terra un gruppo

di su di giù correvadi fanciulli;

strillando anch'essi. Ed ecco s'aprì l'uscio

della casa degli Undicie il custode

alzò dal tetro limitar la voce.

Egli diceva: «È per voi scianto ancora?

Ieri da Delo ritornò la nave

sacrae le feste sono ormai finite.

Non è più tempo di legar col refe

gli scarabei! Non piùdi fare a mosca

di bronzo!» Un poco più lontano il branco

trassein silenzio. Poi gridarono: «Ohe?

che parli tu di scarabeidi mosche?

È una civetta.» In vero una civetta

tutta arruffata era nel pugno a Gryllo

figlio di Gryllo facitor di scudi

ch'era il più grande. Ma l'avea pocanzi

in un crepaccio Hyllo predatail figlio

d'Hyllo vasaioch'era il più piccino.

In un crepaccio della bigia rupe

sotto un cespuglio di parïetaria

vide due rilucenti Hyllo stateri

d'oronell'ombrae s'appressò; ma l'oro

non c'era più: poi li rivide i due

fissi e tondi nell'ombra occhi d'uccello.

Una civetta della Dea di Atene

immobilmente riguardava il figlio

d'Hyllo vasaio; che con le due mani

all'improvviso l'abbrancò su l'ali

e la portava. E Coccalo sorvenne

che gliela prese; a Coccalo la prese

Cottalo; e Gryllo a lui la vinse: allora

Cottalo pianseCoccalo sorrise

e il piccolino frignò dietro il grande.

Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede

della civettae la facea sbalzare

e svolazzare al caldo sole estivo.

E dai tuguri altri fanciullifigli

d'arcieri scitifigli di metèci

trassero. E in mezzo a tutti la civetta

chiudeva apriva trasognata gli occhi

rotondifatti per la sacra notte.

E il coro «Balla» cantò forte «o muori!»

E nel carcere in tanto era un camuso

Pan boschereccioun placido Sileno

col viso arguto e grossi occhi di toro.

Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi

un giovanetto dalla lunga chioma

bellissimo. E molti altri erano intorno

uominimuti. Ed a ciascuno in cuore

era un fanciullo che temeva il buio;

e il buon Sileno gli facea l'incanto.

«Voi non vedete ciò ch'io sono. Io sono»

egli diceva «ciò che di me sfugge

agli occhi umani: l'invisibile. Ora

s'ei guardacome fosse ebbrovacilla;

ma non è luinon è quest'ioche trema:

trema ciò ch'egli guardache si vede

che mai non dura uguale a séche muore.

Iodi mesono l'animache vive

piùquanto più vive con sélontana

dal mondonella sacra ombra dei sensi.

E s'ella parta libera per sempre

nella notte immortaleove si trovi

ella con tutto che non mai vacilla

ella morrà? non vedrà più?» Qualcuno

«Vedrà» rispose; «Non morrà» rispose.

Poi fu silenzio. Il musico vegliardo

Pan era soloaccanto al suo pensiero

invisibile. Il bello adolescente

supino il capocon la lunga chioma

spioventelungi dalla nucaall'aria

beveva l'eco delle sue parole.

Ed ecco entrò dall'abbaino un canto

d'acute voci: «Balladunqueo muori!»

E il custode dal tetro uscio i fanciulli

striduli fece lontanar nel sole

fuor dell'ombra dei tetti e della roccia.

Ma lànel solemolleggiò più goffa

sul pugno a Gryllos'arruffòchiudendo

aprendo gli occhila civettae i bimbi

ridean più forte. Onde il custode: «O Gryllo

figlio di Gryllotu che sei più savio

dà retta. Sai: codesto uccello è sacro

alla Dea nostraa cui tu canti l'inno

movendo nudo coi compagni nudi

per la città. La nostra Dea sa tutto

ché gli occhi ha grigidi civettae vede

con essi per l'oscurità del cielo.»

«Noche non vede» disse Hyllo «né vuole

vederee chiude gli occhi tondi al sole.»

«Passerotaci. TuGryllo» il custode

riprese«grande già mi sei. Conosco

tuo padreil buono artefice di scudi.

Tu gli somigli come fico a fico.

Fa chetare le tortore ciarliere.

C'è dentro la mia casa uno che muore!»

«Chi? Questa sera?» «Al tramontar del sole!»

«Perché?» «La nave ritornò da Delo.

Ed egli vide un sogno: una vestita

di bianche vestiche gli disse: O uomo

il terzo giorno toccherai la terra!

E la cicutasìberrà dentr'oggi.

Tra pocoo Gryllo. Che in silenzio ei muoia!»

Tacquero allora i giovanetti a lungo

pensando all'uomo che cosìper mare

tornava in patria. E Gryllo disse: «È l'uomo

che andava scalzo e passeggiava in aria

e diceva che il sole era una pietra

e sapeva che terra era la luna...»

Ed in silenzio trassero alla roccia

tuttie stettero presso la prigione

come aspettando. E la civettaal lento

filo costrettasi posò sul ramo

d'un oleastro che sporgea dal masso

sopra i ricciuti capi dei fanciulli.

Si chinòs'arruffòmolleggiòcieca

per la gran luce rosea del tramonto.

E dai tegoli un passero la vide

e garrì contro la non mai veduta

e vennero altri passeri al garrito;

e il frastuono eccitò le rondinelle

e fuori ognuna si versò dal nido;

e da un tacito ombroso bosco sacro

venne la capinera e l'usignuolo.

E grande era lo strepito e il bisbiglio

pur non udito dai fanciulliattenti

ad una voce che venìa di dentro

di chi tornava alla sua patria terra

invisibilee placido parlava

a un'altra barca che incrociò sul mare.

E poi cessato il favellìo di dentro

un dei fanciulli disse: «Hyllotu monta

su le mie spallee narra quel che vedi.»

Hyllo montò sul dorso a quel fanciullo

e sogguardò per l'abbaino: «Io vedo.»

«Hylloche vedi?» «Un buon Sileno vecchio.»

«Che dice?» «Dice che andrà viache il morto

non sarà lui: seppelliranno un altro.»

Il sole in tanto ritraeva i raggi

dai bianchi templi della sacra Atene.

Sola splendea la cuspide dell'asta

che aveva in mano la gran Dea di bronzo.

Brillò d'un tratto e poi si spense; e il sole

calò raggiando dietro il Citerone.

«Hylloche vedi?» «Beve.» «La cicuta!»

«Piangonogli altri; uno si copre il capo

con la vesteuno grida.» «Essoche dice?»

«Dice di far silenziocome quando

si sparge l'orzopresso l'arae il sale.»

Ed era alto silenzioche s'udiva

il passo scalzo su e giù dell'uomo

e poi nemmeno si sentì quel passo..

«Hylloche vedi?» «È sul lettuccio; un altro

gli preme un piede. S'è coperto. Muore...»

«Dunque non esce?» «Ora si scopre. Dice:

Un gallo al Dio che ci guarisce i mali!»

«Che? La cicuta è un farmaco salubre?»

«Uno gli chiude ora la bocca e gli occhi.»

«Dunque non parte? è sempre lì?» «Sìmorto.»

E bisbigliando stavano i fanciulli

lungo la rocciaal buio. Ecco e la porta

s'aprì. N'usciva con singhiozzi e pianti

un vecchioun giovinettoaltri poi molti

tristi gemendo. E dall'inconscie dita

il filo uscì con un lieve urto a Gryllo:

e il sacro uccello della notte in alto

si sollevò con muto volo d'ombra.

E i compagni del morto ed i fanciulli

scosse un subito fremitouno strillo

di sopra il tettoKikkabau... dall'alto

Kikkabau... di più altoKikkabau...

dal cielo azzurro dove ardean le stelle.

E disse alcunoudendo il fausto grido

della civetta: «Con fortuna buona!»

 

 

I GEMELLI

 

Che sente il fiore cui la molle forza

di vita svolge i petali del boccio?

Quel che sentiva allora la fanciulla

che si svolgea dal calice più bianca

e più sottileil collo così lasso

che lo piegava l'occhio di sua madre.

La neve già struggevama non tutta:

se ne vedeva qua e là sui monti.

Spuntava l'erbaverdicava il salcio

e ravvenate ora mescean le polle.

Era sui montiera a bacìo la neve

ancora: ella si fece anche più bianca

e più sottile: un pianto nella casa

sonò: poila fanciulla era sparita.

E il suo gemello la richiese al padre

meditabondo. Egli accennò lontano.

E la richiese alla soletta madre

che gli sorrisee lacrimò più tanto.

«Sappi: è nel prato asfòdelo... C'è bello...

Lietasebbene senza il suo gemello...

Nonon è solama tra un fitto sciame...

Un fiore hanno alla sete ed alla fame...

Sì: tu ci andrai... Sì: la vedrai... tra giorni...

Resta con me! s'ora ci vainon torni!»

Ma il giovinetto andò per prati e boschi

sempre cercando. Un giorno seguì l'api

a un pratole ronzanti api ad un fonte.

Nel fonte ritrovò la sua sorella.

Il giovinetto si chinò sul fonte

e la fanciulla apparve su dal fonte.

Egli era mestoed eraanch'ellamesta.

Ma le sorriseed ella gli sorrise.

Aprì la bocca per chiamarla a nome;

subito anch'ella aprì la bocca a un nome.

Ed egli chiesechi l'avea rapita

se lieta le era la solinga vita;

ed ella presto rispondeama troppo

ch'ella parlava mentre egli parlava.

Ed egli tacqueed ella tacque: allora

egli ripresema riprese anch'ella.

E il giovinetto non intesee pianse.

E la fanciulla si confusee pianse.

Ora una voce chiamò lui: la voce

della sua madre che l'avea smarrito.

«Ci chiama. Vieni con il tuo gemello

dalla tua madre. C'ècon leipiù bello!»

Ella rispose; ma fondea nell'ansia

le sue parole con le sue parole.

«Qui non c'è fiori per il tuo digiuno!

Tu sei nel prato ove non c'è nessuno!»

La madre ancora lo chiamò. Le labbra

chinò... che freddo in quelle dolci labbra!

Le diede un bacio sussurrandoAddio!

ed un gorgoglio udì nell'acqua: Addio!

E il giovinetto s'alzò su dal fonte

e la fanciulla sparve giù nel fonte.

«O madre! O madre! È dove tu m'hai detto!

Ma ella è solanel fonte soletto.

Non ho veduto altro che il suodi capi.

Non ho sentito altro ronzioche d'api.

Non ha vicine altre compagne care!

Non ha quei fiori per il suo mangiare!

Vieni tumadre; ella ritornerà!»

«O figlio! O figlio! T'ha deluso un Dio!

Il fior che dissi è il fiore dell'oblio.

E tu non vieni dal fiorito prato

ch'è più lontano del cielo stellato!

A chi ci vagli è pressocome l'orto;

ma chi ne tornaanche se arriva smorto

a dove dormìè tuttavia di là!»

Ma il giovinetto le afferrò la mano

e disse: «O Vienise non è lontano!»

Egiunti al pratosi chinò sul fonte

e la sorella venne su dal fonte.

Ah! ma nel fonte presso il suo sorriso

c'era la madre col suo mesto viso!

«O madre! O madre! Ecco che lei s'attrista

dacché nel grave tuo dolor t'ha vista!»

«O figlio! O figlio! Io sono lì pur quella!

Non hai due madri! E non hai più sorella!»

E turbò l'acqua. E madre e figlia sparve

oscuramentequa e lànel gorgo;

fin cheondeggiandotremulia fior d'acqua

vennero ancora figlio e madre in pianto.

Ed egli allora oh! sìcapì. Ma venne

per molti giorni al tralucente lago

a rivedere in sé la sua sorella

che in lui viveva; ed esso in lei moriva.

Ed era il tempo che il nostro dolore

cadea qual semee ne nasceva un fiore:

un fior dal sangue delle nostre vene

un fior dal pianto delle nostre pene.

Ed egli fu il leucoioella il galantho

il fior campanellino e il bucaneve.

E questo avea tre petali soltanto;

e quelloseicoi sommoli un po' verdi.

Candidi entrambia capo chino entrambi.

Spuntava il crocoil morto per amore

bel giovinetto. E non fu lor compagno.

E non l'AI AI videro del giacinto

dal vento ucciso. Non fioriva ancora.

Erano soli soli; ché la neve

era sui montiera a bacìotuttora.

E qualche alatoch'ebbe vita umana

giàcome lorogià piangeama seco

sommessamente: o dentro sé pensava

quel pianto amaro ch'è poi dolce canto.

I due puri gemelli esili fiori

fu breve la lor vita anche di fiori.

Amor fu quello prima dell'amore.

Nonforseamorema dolorsìera.

Sparvero prima della primavera.

 

 

I VECCHI DI CEO

 

I

 

I DUE ATLETI

Nella rocciosa Euxantidesul monte

tra la splendida Iulide e l'antica

sacra Carthaiacauto errava in cerca

non so se d'erbe contro un male insonne

o di fiori per florido banchetto

Panthide atleta: atleta giàma ora

medicodi salubri erbe ministro.

E coglievapiù certoerbe salubri

ché il capo bianco non chiedea più fiori.

Partito già da Iulide pietrosa

era su l'alba. Or l'affocava il sole;

sì che saliva al vertice del monte

folto di quercie nel cui mezzo è l'ara

del Dio che manda all'arsa Ceo le pioggie

tra un bombir lieto. E giunse tra le quercie

sul ventilato vertice. E gli occorse

uno ascendente per la balza opposta.

E riconobbe un vecchio ospiteatleta

anch'esso: Lachonche vedeasi in casa

molte coroneil secco appio dell'Istmo

il Nemèo verdenon ormai già verde

e l'alloro e l'olivo: altri germogli

no; non di cari figli altra corona.

Ché solo egli era. E per la via selvaggia

coglieva anch'esso erbe salubri o fiori

per morbo insonne o florido convito:

mapiù certosalubri erbeché un cespo

svelgendo allora da un sassoso poggio

le vecchie rughe egli facea più tante.

Ora gli stette agli omeri Panthide

non anco vistoimmobilecol fascio

dei lunghi steli dietro il dorso; e l'altro

sentì che un'ombra gli pungea la nuca;

e si voltò celando la mannella

della sua messe. Ma con un sorriso

a lui mostrò la sua Panthidee disse:

«Oh!» disse «vedo. Non è crespo aneto

Lachonper un convito; non è mirto;

né cumino né molle appio palustre...»

Erano cauli connel gamborosse

chiazze e con bianchi fiorelliniin cima.

E Lachon interruppe: «Ospiteil Tempo

che viene scalzoall'uno e all'altro è giunto

della cicuta; come è patria legge:

CHI NON PUò BENEMALE IN CEO NON VIVA.»

Disse Panthide: «Ricordiamo il detto

dell'usignolo che di miele ha il canto

dell'isolana ape canora: Il cielo

alto non si corrompenon marcisce

l'acqua del mare... L'uomo oltre passare

non può vecchiezza e ritrovare il fiore

di gioventù.» «Noi ritroviamo il fiore

della cicuta!» con un riso amaro

Lachon ripresee poi soggiunse: «Un fascio

cogliernetutto in un sol dìper vecchi

ospiteè grave. Oh! non ha senno l'uomo!

Sin dalla lieta gioventù va colto

un gambo al giornoil fiore della morte!»

 

II

 

L'INNO ETERNO

E sederono all'ombra d'una quercia

l'un presso l'altro. Sotto la lor vista

tra bei colli vitati era una valle

già bionda di maturo orzo; e le donne

mietean cantandoe risonava al canto

l'aspro citareggiar delle cicale

su per le vigne solatìe dei colli.

E nella pura cavità del cielo

di qua di là si rispondean due voci

parlando di lor genti che lontane

tenea Corinto dove è un tempio dove

sono fanciulle ch'hanno ospiti tanti...

E nel mezzo alla valle era Carthaia

simile a bianco gregge addormentato

da quell'uguale canto di cicale.

Il mare in fondoqualche vela in mare

come in un campo cerulo di lino

un portentoso biancheggiar di gigli.

Tra mare e cielosopra un'erta roccia

la Scuola era del coro: eradi marmo

candidola ronzante arnia degl'inni.

Ivi le frigie tibieivi le certe

doriche insieme confondean la voce

simile ad un gorgheggio alto d'uccelli

tra l'infinito murmure del bosco.

Ivi sonavadolce al cuorla lode

del giovinetto corridore e il vanto

del lottatore; e per sue cento strade

l'inno cercava le memorie antiche

volava in cielosi tuffava in mare

incontrava sotterra ombre di morti

tornandoebbro di gioia ebbro di pianto

con due fogliuzze a coronar l'atleta.

Era lontanoe non vedean che il bianco

dei marmi al solei due pensosi vecchi.

Eppur di là l'alterna eco d'un inno

giungeva al cuoreo forse era nel cuore.

Da destra il giorno si movea col sole

portando il canto e l'opere di vita

verso sinistraal mesto occasodonde

co' suoi pianeti si volgea la notte

tornando all'alba e conducendo i sogni

echi e fantasmi d'opere canore.

Fluiva il giornorifluìa la notte.

Sotto il giorno e la nottee la vicenda

di luce e d'ombradi speranza e sogno

stava la terra immobile. Ma il coro

era più rapido. Arrivava un'onda

dal mareun'altra ritornava al mare.

Era la vita. Dopo il moto alterno

d'un'onda sola che salìa cantando

scendea scrosciandomormorava il mare

immobilmente. E molte vite in fila

salìan dal mare riscendean nel mare:

quindi l'eterno. E dall'eterno altre onde:

i figli. Altre onde dall'eterno: i figli

dei figli. E onde e ondee onde e onde...

 

III

 

EFIMERI

Disse Panthide: «Ospiteho cinque figli

molto lodaticome sai: Zelòto

il primo: Argeobuono alla lottaeppure

fiorito appena di peluria il labbro

l'ultimo: è questi ora su l'Istmoai giochi.

Lachonascolta. Ieri udiisu l'alba

un grido in casaun fievole vagito

che mi chiamava al talamo del figlio

più grande. Andai. Vidi una luce: un uomo

novo fiammante! E con le sue manine

egli annaspava come a dire - O vedi

ch'io l'ho pur qui la lampada di vita

accesa a quella ch'alla tua s'accese!

Più non è danno se la tua si spenge:

Son io Panthide. Puoi partireo nonno! -

Parlato ch'ebbeegli movea le labbra

come assetato... E io dovrei tutt'ora

tener le labbra al pispino del fonte

vietando io vecchio al mio novello il bere?

gli dovrei forse intorbidar la polla?

Io parto. Ecome io sono luinon muoio.»

E Lachon disse: «Oh! io vorrei che un poco

la piccoletta fiaccola negli occhi

miei balenasse! Oh! io vorrei per poco

con la mia mano ripararle il vento!

vorreiseduto per qualche anno al fonte

di vitasenza berne più che un sorso

vorrei vedere quella rosea bocca

arrotondarsi sul bocciuol materno!

Ospiteio credopiù di me tu muori.»

Tacquero intenti a udirsidentrol'inno

del lor respiroonda che viene e onda

che vaseguite da un pensiero immoto.

Le mietitrici avean ripreso il canto

tra l'orzo biondoe risonava al canto

l'aspro citareggiar delle cicale.

E disse Lachon: «Troppo bellao sacra

isola Ceo! Chi nacque in teche volle

morire altrove? Ma sei poca a tanti!»

A cui Panthide: «Poca sì... ma Delo

appena morti i figli suoi bandisce.

Partono i morti dalla sacra Delo

sopra la nave neraesulie vanno

mirabilmente pallidisul mare

alla Rhenèa dove non son che morti;

e sole capre e pecore selvaggie

belano errando sopra il lor sepolcro.»

Lachon pensava e su la palma il capo

reggea dubbioso. «Io mi ricordo» ei disse

«un inno uditoora è molt'anniin Delfi

lungo l'Alfeo: Siamo d'un dì! Cheuno?

cheniuno? Sogno d'ombral'uomo!»

L'ombra di lui teneva su la palma il capo:

pensavaa piè dell'albero; e vicine

stridere udiva l'ombre delle foglie.

 

IV

 

L'INNO ANTICO

Poi raccolti i lor fasci di cicute

sorsero entrambie dissero: Va sano!...

Va sano!... E ritornavano cogliendo

ancor pei greppi i fiori della morte.

Esalava il canùciolo e il serpillo

odor di cera e dolce odor di miele.

Ronzavano api e scarabei de' fiori.

E Lachon giunse al prònao d'Apollo

alla Scuola del coro. Era già sera

una sera odorosa; ed il suo nome

udì gridare a voci di fanciulli.

Eran fanciulli chein lor giochiun inno

volean cantare a mo' dei grandiun inno

vecchioche ognuno avevain Ceonel cuore.

Presto un impube corifeo la schiera

ebbe ordinatae già da destra il coro

movea cantando per la via del sole

verso la seracon gridìo d'uccelli.

Pubertà

fonte segreto che spiccia

senza un tremito e un gorgoglio

ma che di tenero musco

veste insensibilmente lo scoglio:

a te dia Lachon l'erba del leone

l'appio verde del bosco Nemèo.

Conobbe l'innoil primo inno cantato

a lui quand'era il suo destino in boccia

tuttoraquanti anni passati? Tanti!

E da sinistra volsero i fanciulli

come i notturni aurei pianetia destra.

Nulla sta!

Tutto nel mondo si muove

correo giovinetto atleta

come nell'inclito stadio

tu col piede di vento alla meta:

di che la prima delle tue corone

tu riporti all'Euxantide Ceo.

I fanciulli si volsero con gli occhi

al cielo e al marefermi su la terra

sacraalzando le acute esili voci.

Ora è ora d'amare.

L'appio verde vuoi sol tu?

Corranoun tempole gare

dove Lachon non sia più

giovani ch'ansino e rapidi sbuffino l'anima

tuala tualungo l'Alfeo!

E nel cospetto dei fanciulli apparve

Lachon il vecchio con le sue cicute

e intorno al vecchio corsero i fanciulli

gridando: «A noiperché ci sia ghirlanda!

l'appio a noi! l'appio verde! l'appio verde!»

 

V

 

L'INNO NUOVO

E Panthide a quell'ora era pur giunto

sotto l'aerea Iulide natale.

E vide in mare una biremee vide

che ammainando entrava già nel porto.

E dall'aerea Iulide e dal grande

leon di pietra accovacciato in vetta

il popolo scendea lungo l'Elixo

scendea dall'alto in lunga fila al mare.

Veniano primi i giovinetti a corsa

dando alla brezza i riccioli del capo;

poi le donne altocinteultimi i vecchi

spartendo tra due passi una parola.

Poi che giungea dall'Istmola bireme

portando alfine i buoni atleti a casa

e quante niuno ancor sapeaghirlande.

E trasse al lido anche Panthidein seno

celando il fascio delle sue cicute.

Stava in disparte. Ed ecco dalla nave

scese una schiera di settanta capi

brunitutti fioriti di corimbi

e su la spiaggia stettero. Un chiomato

citaredo sedé sopra un pilastro

e presso lui gli auleti con le lunghe

tibie alla bocca. E il mare eternoil mare

alternoa spiaggia sospingea l'ondate

le ricoglieacosì tra il canto e il pianto.

Stridé la tibiatintinnì la cetra

e il coro alzò tra il sussurrìo del mare

un inno di Bacchylide. In disparte

era Panthidee il vecchio cuor batteva

contro la manna delle sue cicute.

L'onda ascendevadiscendeva l'onda;

e il coro andòpoi ritornò sul lido.

O sacra Ceo!

mosse ver te la fulgida

Fama che in alto spazia

a te recando un messo

pieno di grazia

che nella lotta il pregio

fu del valido Argeo;

e noi la grande

gloriasull'istmio vertice

venuti dall'Euxanti-

d'isola diafacemmo

chiara coi canti

nostrinoi coro adorno

di settanta ghirlande:

ed or la musa indigena

suscita il dolce strepito

di tibie lyde

per onorar d'un inno

il tuo figlioo Panthide!

Udì Panthidee il cuor batté più forte

contro la manna delle sue cicute.

Ora poteva sciogliere la vita

felicementecome alcuno un fascio

d'erbe e di fiori che nel giorno colse

sfasu la serache ne fa ghirlanda

tornato a casa. Ché dei cinque figli

niuno lasciava senza lode in terra.

Gli avea ben fatto il Solee dalle Grazie

avea sortito ciò Che all'uomo è meglio.

Ammirato dagli uomini mortali

tornava a casaper pestareil saggio

medicol'erbe nel mortaio di bronzo.

E la notte era dolceaurea; tranquillo

era il suo cuore. Ché il Panthide nuovo

s'era acquetato sul materno petto

e il forte Argeostanco di mare e gioia

dormivagià sognando altre corone.

Buonala sorte! buona! Ché concesso

non gli era mica di salire al cielo!

 

 

ALEXANDROS

 

I

- Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldosquilla!

Non altra terra se non lànell'aria

quella che in mezzo del brocchier vi brilla

o Pezetèri: errante e solitaria

terrainaccessa. Dall'ultima sponda

vedete làmistofori di Caria

l'ultimo fiume Oceano senz'onda.

O venuti dall'Haemo e dal Carmelo

eccola terra sfuma e si profonda

dentro la notte fulgida del cielo.

 

II

Fiumane che passai! voi la foresta

immota nella chiara acqua portate

portate il cupo mormorìoche resta.

Montagne che varcai! dopo varcate

sì grande spazio di su voi non pare

che maggior prima non lo invidïate.

Azzurricome il cielocome il mare

o monti! o fiumi! era miglior pensiero

ristarenon guardare oltresognare:

il sogno è l'infinita ombra del Vero.

 

III

Oh! più felicequanto più cammino

m'era d'innanzi; quanto più cimenti

quanto più dubbiquanto più destino!

Ad Issoquando divampava ai vènti

notturno il campocon le mille schiere

e i carri oscuri e gl'infiniti armenti.

A Pella! quando nelle lunghe sere

inseguivamoo mio Capo di toro

il sole; il sole che tra selve nere

sempre più lungiardea come un tesoro.

 

IV

Figlio d'Amynta! io non sapea di meta

allor che mossi. Un nomo di tra le are

intonava Timotheol'auleta:

soffio possente d'un fatale andare

oltre la morte; e m'è nel cuorpresente

come in conchiglia murmure di mare.

O squillo acutoo spirito possente

che passi in alto e gridiche ti segua!

ma questo è il Fineè l'Oceanoil Niente...

e il canto passa ed oltre noi dilegua. -

 

V

E cosìpiangepoi che giunse anelo:

piange dall'occhio nero come morte;

piange dall'occhio azzurro come cielo.

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)

nell'occhio nero lo sperarpiù vano;

nell'occhio azzurro il desiarpiù forte.

Egli ode belve fremere lontano

egli ode forze incogniteincessanti

passargli a fronte nell'immenso piano

come trotto di mandre d'elefanti.

 

VI

In tanto nell'Epiro aspra e montana

filano le sue vergini sorelle

pel dolce Assente la milesia lana.

A tarda nottetra le industri ancelle

torcono il fuso con le ceree dita;

e il vento passa e passano le stelle.

Olympiàs in un sogno smarrita

ascolta il lungo favellìo d'un fonte

ascolta nella cava ombra infinita

le grandi quercie bisbigliar sul monte.

 

 

TIBERIO

 

I

Discende a notte Claudïo dal monte

Borèo: col vento dalle nubi fuori

rompe la luna e gli balena in fronte

fuggendo. Egli rimiraa quei bagliori

Livia e l'infante: intorno vanno frotte

silenziose di gladïatori.

S'ode tra lunghe raffiche interrotte

l'Eurota in fondo mormorar sonoro;

s'ode un vagito. E nella dubbia notte

le nere selve parlano tra loro.

 

II

Rabbrividendo parlano le selve

di quel vagito tremuloche a scosse

va tra quel cauto calpestìo di belve.

Sommessamente parlanocommosse

ancor dal ventoche vanì; dal vento

Boreache le aspreggiòche le percosse.

Dal ciel lontano a quel vagito lento

egli era accorso; ma nell'infinito

ansar di tuttodopo lo spavento

risuona ancora quel lento vagito.

 

III

Chi vagisceè Tiberio. E il vento accorre

dal ciel profondo tuttavia; spaura

le nubi in fugae sbocca dalle forre.

Le selve il mormorìo della congiura

mutano in urloe gli alberi giganti

muovono orridi in una mischia oscura.

Lottano i pini coi disvincolanti

frassinie l'elci su la stessa roccia

coi faggi urtano i vecchi tronchi infranti.

E il fiore della fiamma apresi e sboccia.

 

IV

Sboccia la fiammae il vento la saetta

come una frusta lucida e sonante

via per ogni pendìoper ogni vetta.

Il vento con la frusta fiammeggiante

col mugghio d'una mandrïa di tori

cerca il vagito del fatale infante.

Ardono i monti; ma ne' suoi due cuori

Livia tranquillaindomitaribelle

tra i rossi òmeri de' gladïatori

nutre Tiberio con le sue mammelle.

 

 

GOG E MAGOG

 

I

A mandrecome gli asini selvaggi

in vano andava e ritornava in vano

Gog e Magog coi neri carriaggi;

e la montagna li vedea nel piano

errareudiva di tra le tormente

di quelle fruste lo schioccar lontano;

ed un bramir giungevadella gente

di Mongcome umile abbaiar di iene

all'inconcussa Porta d'occidente.

 

II

Ché tra due monti grande eradi rosso

bronzouna porta; grande sìche l'ombra

ne trascorreva all'ora del tramonto

mezza la valle. Il figlio dell'Ammone

la incardinò per chiudere gl'immondi

popolie i neri branchi di bisonti:

la sprangòchiuse. Ma ristette al sommo

dei monti: un chiaro strepere di trombe

giungea dalle Mammelle d'Aquilone.

 

III

V'era il Bicorne... E gli ultimi cheinfanti

aveano udito il gran maglio cadere

su le chiavardeerano grigi vecchi;

e non partiva... E i figli lorgiganti

dagli occhi fiammeidalle lingue nere

o nani irsuti dai mobili orecchi

erano morti; e d'ognun d'essii mille

erano natiquante le faville

da un tizzo: ma il Bicorne era lassù.

 

IV

In alto in altoa guardia dell'Erguene-

cun; e lo squillo delle sue diane

movea valanghe e rifrangea morene.

S'empivaogni albail cielo di poiane;

e l'Orda a vallecome nubi al suono

del nembonera s'addossava al Kane:

carri che rotolavano dal cono

delle montagne; un subito barrito

d'elefanti; una voce come tuono...

 

V

Ma meno udian di giorno quel tumulto

lassù; di giorno anche le genti chiuse

ruggìanoe il cibo dividean con l'unghie.

Vaniva il grido di lassù nell'urlo

della lor fame. Eradi giornotutto

al sangueAlanAnegAgegAssur

ThubalCephar. Piùnelle notti lunghe

s'udivaquando concepìannel Yurte

le loro donne i figli di Mong-U.

 

VI

La luna andava su per orli gialli

di nubiin fuga: per l'intatta neve

stavano in cerchio mandre di cavalli:

le teste in dentroimmobilitra il bianco

stavano: a ora a ora un nitrir breve

un improvviso scalpitìo del branco.

Ché tutta la montagna solitaria

muggìa. Temeva anche la lunae lieve

balzava suda nube a nubein aria.

 

VII

O risplendea sul murmure infinito

pendula. Cinto d'edere e d'acanti

l'Eroetolte le faci del convito

scorreva in festa i gioghi lustreggianti

e laggiùdalle tonde ombre dei pini

l'Orda ascoltava lunghi aerei canti;

udiva lunghi gemiti marini

di concheetra il tintinno della cetra

timpani cupicimbali argentini.

 

VIII

Gog e Magog tremava; e le sue donne

dissero: «Non ha madre Eglicui dolce

gli sia tornarepieno d'ambra e d'oro?

non figligreggi? non fiorenti mogli

presso cuisazio di narrarsi corchi?

Forse hanno a sdegno lui così bicorne!

Dunque e perché non scende Egli dal monte

né prendesi una dalle nostre torme

che gli sia bestiatra Gog e Magog?»

 

IX

Gog e Magog tremava... Uno dei nani

cauto trovò gli stolidi giganti.

«Noi moriamoo gigantied Egli no.

Io che muovo gli orecchi come i cani

intesi cose. Non c'è sempre avanti

Zul-Karnein. A volte a Rum andò.

Parte col sole. A un fonte vadi stelle

liquideazzurro. Con le due giumelle

v'attinge vita. Ogni cent'anni un po'.»

 

X

Ora Egli un giorno (la Montagna tetra

parea più presso ecome scheletrita

mostrava il bianco ossame suo di pietra)

per l'ombradove non sapea che dita

reggeano erranti lampade d'argento

per l'ombra andava al fonte della vita.

E non più squilli di tra i gioghie il vento

soffiava in vano. La gran Porta un poco

brandivaa tratticon émpito lento.

 

XI

Gog e Magog tre dìvigileattese;

tre notti attese; e non udìche a sera

la Porta a quando a quando brandir lenta.

Non c'era più sui monti... E l'Orda prese

la via dei monti. Andava l'Orda nera

formicolando sotto la tormenta.

All'alba mugliò lugubre un bisonte

nitrì un cavallosi spezzò la schiera...

Uno squillo correa da monte a monte.

 

XII

E dissero le donne: «Uomo da nulla

Zul-Karnein! Tornasti in fretta! O forse

non c'era al fonte sola una fanciulla?

non una tua sorellache la secchia

abbandonò vuota sul fontee corse

ansando in casa alla tua madre vecchia?

Or fadivino arietesonare

le trombe! Al suono delle tue fanfare

l'uom ci si destae poi... non dorme più.»

 

XIII

E gli uomini ulularono: «Ha bevuto

in Rum al fonte delle stelle azzurro!

Zul-Karnein è sempre ciò che fu.»

E lor fu in odio ogni altra vitae il frutto

d'ogni altro ventre; e il rosso sangue munto

bevvero alle bisontialle zebù.

Né più sonava per la valle un muglio.

Non sonò piùGog e Magogche l'urlo

interminato delle sue tribù.

 

XIV

Ma sìpartì Zul-Karneinnel fuoco

d'un vespro: per il monte erano stese

porpore cupe a margini di croco.

Nel cocchio d'oro folgorando ascese

l'Eroe; nell'ombra lontanò tra un gaio

ridere di berilli e di turchese

Un balenìo di cuspidi d'acciaio

un'eco d'inni che tremola ed erra

qua e là... Tacque infine irto il ghiacciaio.

 

XV

Tre anni attese il Tartarotre anni

spiò l'arrivo degli stessi draghi

dagli occhi d'oro sopra la montagna

tacita e sola. Il Tartaro guardava

né già temevae più sentìa la fame

e l'irae con man d'orso per la valle

svellea betullesradicava ontani.

Ma vide gli occhi degli stessi draghi

la terza voltae venne alla montagna.

 

XVI

A piè delle Mammelle d'Aquilone

giunsero cauti. E il vecchio nano astuto

con mani e piedi rampicò sui tufi.

E vide in cima un grande padiglione

come di trombae vi scivolò muto:

v'udì soffivi scorse occhi di gufi.

Un nido immondo riempiva il vuoto

di quella tromba. Un grande gufo immoto

v'eradue ciuffi in capo irtida re.

 

XVII

Prese due penne il vecchio nanoe stette

sopra una rocciaed agitò le penne

e chiamò l'Ordache attendeva: «A me

Gog e Magog! A meTartari! O gente

di MongMosachThubalAnegAgeg

AssumPothimCepharAlana me!

A Rum fuggì Zul-Karneinle ferree

trombe lasciando qui su le Mammelle

tonde del Nord. Gog e Magoga me!»

 

XVIII

O stolti! Quelle trombe erano terra

concavadonde il vento occidentale

traevaansandostrepiti di guerra.

Rupperle disdegnando col puntale

de' lor pungettie dalle trombe rotte

gufi uscivan con muto batter d'ale.

Risero accortie sparsi per le grotte

bevvero sangue. Sopra loro un volo

mutodi sognie i gridi della notte.

 

XIX

Alla gran Porta si fermò lo stuolo:

sorgeva il bronzo tra l'occaso e loro.

Gog e Magog l'urtò d'un urto solo.

La spranga si piegò dopo un martoro

lungo: la Porta a lungo stridé dura-

mentee s'aprì con chiaro clangor d'oro.

S'affacciò l'Ordae vide la pianura

le città bianche presso le fiumane

e bionde messi e bovi alla pastura.

Sboccò bramendoe il mondo le fu pane.

 

 

LA BUONA NOVELLA

 

I

 

IN ORIENTE

 

I

Si vegliava sui monti. Erano pochi

pastori che vegliavano sui monti

di Giuda. Quasi spenti erano i fuochi.

Altri alle tombe mutealtri alle fonti

garrulepresso. Il plenilunio bianco

battea dai cieli sopra le lor fronti.

Ognun guardava ai cielicome stanco

stanco nel cuore; ognuno avea vicino

il dolce uguale ruminar del branco.

Sostava sino all'alba del mattino

il cuor del greggesazio di mentastri;

ma il cuore de' pastori era in cammino

sempre; ch'erano erranti come gli astri

essi: avean la bisaccia irta di peli

al colloe tra i ginocchi i lor vincastri

e cinti i lombie nella mano steli

d'issopo. E alcunocome è lor costume

cantavafisocome stancoai cieli.

E il cantosotto i cieli arsi dal lume

a piè dell'universoera sommesso

era non più che un pigolìo d'implume

cadutosotto il suo grande cipresso.

 

II

Maath cantava: - O tu che mai non poni

il tuo vincastroe che pari nell'alto

le taciturne costellazïoni

Dio! che la nostra vita cader d'alto

faicome pietradalla tua gran fionda...

la pietra cade sopra il Mar d'asfalto.

Pietra ch'è nel Mar morto e non affonda

la vita! Cosa grave che galleggia

e va e va dove la porta l'onda!

O Dionoi siamo come questa greggia

che va e vané posso dir che arrivi

nemmen se giunga al pozzo della reggia! -

Addì cantava: - Tusola tuvivi

o greggiache non mai dalle tue strade

vedi la Morte ferma là nei trivi.

Vedo qualche smarrito astro che cade:

muore anche l'astro. Ma tupago il cuore

stai ruminando sotto le rugiade.

O greggiasolo chi non sanon muore!

Tu non odi l'abisso che rimbomba

presso il tuo dentee strappi lieta il fiore

del loto eterno ai sassi della tomba.

 

III

E un canto invase allora i cieli: PACE

SOPRA LA TERRA! E i fuochi quasi spenti

arseroe desta scintillò la brace

come per improvvisa ala di venti

silenzïosie si sentì nei cieli

come il soffio di due grandi battenti.

Erano in alto nubipari a steli

di gigliosopra Betlehem; già pronti

eranoin piediattoniti ed aneli

i pastori guardando di sui monti

e chi presso le tombeonde una voce

uscìa di cullae chi presso le fonti

onde un tumulto scaturìa di foce:

e un angelo eracon le braccia stese

tra lorocome un'alta esile croce

bianca; e diceva: «Gioia con voi! Scese

Dio sulla terra.» Ed a ciascuno il cuore

sobbalzò verso: il bianco angeloe prese

via per vedere il Grande che non muore

come l'agnello che pur va carponi;

il Dio che vive tutto in sépastore

di taciturne costellazioni.

 

IV

Mossero: e Betlehemsotto l'osanna

de' cieli ed il fiorir dell'infinito

dormiva. E videroeccouna capanna.

Ed ai pastori l'accennò col dito

un angelo: una stalla umile e nera

donde gemeva un filo di vagito.

E d'un figlio dell'uomo erama era

quale d'agnello. Esso giacea nel fieno

del presepee sua madreuna straniera

sopra la paglia. Era il suo primoe il seno

le apriva; e non aveva ella né due

assi: all'albergo alcun le disse: È pieno.

Nella capanna povera le sue

lagrime sorridea sopra il suo nato

su cui fiatava un asino ed un bue.

- Noi cercavamo Quei che vive... - entrato

disse Maath. Ed ella con un pio

dubbio: - Il mio figlio vive per quel fiato...

- Quei che non muore... - Ed ella: - Il figlio mio

morrà (dissee piangeva su l'agnello

suo tremebondo) in una croce... - Dio... -

Rispose all'uomo l'Universo: È quello!

 

 

II

IN OCCIDENTE

I

Grandelungo le molte acqueal sussurro

del fiume eternosopra i sette monti

bianca di marmo in mezzo al cielo azzurro

Roma dormiva. Agli archi quadrifronti

battea la luna; e il Tevere sonoro

fiorìa di spuma percotendo ai ponti.

Alto fulgeva col suo tetto d'oro

il Capitolio: ma la notte mesta

adombrava la Via Sacra del Foro.

Nell'ombra un lume: il fuoco era di Vesta

che tralucea. Nel tempio le Vestali

dormian ravvolte nella lor pretesta.

Era la notte dopo i Saturnali.

Nelle celle de' templisui lor troni

taceano i numisoli ed immortali.

Intorno alla Dea Madre i suoi leoni

giacean nel sonno. Gli ebbri Coribanti

dormian con nell'orecchio ululi e tuoni.

Rosso di sangue uno giaceva avanti

la Dea. Dischiuso il tempio era di Giano.

Esso attendevacoi serrami infranti

l'aquile che predavano lontano.

 

II

Roma dormivaebbra di sangue. I ludi

eran finiti. In sogno le matrone

ora vedean gladiatori ignudi.

Ne' triclini ai dormenti le corone

eran cadutee s'imbevean le rose

nel sangue che fluì dal mirmillone.

Dormivan su le umane ossa già rose

le belve in fondo degli anfiteatri;

e gli schiavi tornati erano cose.

Dopo la breve libertànegli atrï

giacean gli ostiari alla catenaquali

cani la cui leggera anima latri.

Era la notte dopo i Saturnali;

ed ogni schiavo dalla tarda sera

dormivaudendo ventilar grandi ali

e gracidare. Erano cigni a schiera

sul patrio fiume... No: su l'Esquilino

erano corvi in una nube nera...

Ei tesseva e stesseva il suo destino:

vedea sua madre; poi sentia la voce

del banditore: apriva al suo bambino

le bracciae le sentia fitte alla croce.

 

III

Roma dormiva. Uno vegliavaun Geta

gladïatore. Egli era nuovoappena

giunto: il suo piedebianco era di creta.

L'aveancol raffiotratto dall'arena

del circo; e nello spolïario immondo

alcun nel collo gli aprì poi la vena

Rantolava; il silenzio era profondo:

il cader lento d'una goccia rossa

solo restava del fragor del mondo.

Ma d'uomini gremita era la fossa

in cui giaceva. All'occhio suotra un velo

parea scoprirne e ricoprirne l'ossa.

Ed era soloe l'uomo che col gelo

lo pungea di sua cutepiù lontano

gli era del più lontano astro del cielo;

più della terra suapiù del suo piano

lunghesso l'Istroe de' suoi bovi ch'ora

sdraiati ruminavano pian piano

e de' suoi figli ch'attendean l'aurora

piccoli nella lor nomade cuna

e del suo plaustroch'era sua dimora

là fermo e nero al lume della luna.

 

IV

E venne bianco nella notte azzurra

un angelo dal cielo di Giudea

a nunzïar la pace; e la Suburra

non l'udiva; e nel tempio alto di Rhea

bandì la pace; e non alzò la testa

quell'uomo rosso ai piedi della Dea;

e videun fuocoe dissePACE; e Vesta

ardevae le Vestali al focolare

sedeano avvolte nella lor pretesta;

e vide un tempio apertoe dal sogliare

mormoròPACE; e non l'udì che il vento

che uscì gemendo e portò guerra al mare.

E l'angelo passò candido e lento

per i taciti trivie diceaPACE

SOPRA LA TERRA!... Udì forse un lamento...

Vegliavail Geta... Entrò l'angelo: PACE!

disse. E nella infinita urbe de' forti

sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace·

Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti

e i morti ai mortie le tombe alle tombe

e non sapeano i sette colli assorti

ciò che voi sapevateo catacombe.